un racconto di Massimo Bianco
Era una fresca mattinata tardo primaverile a Lucca, la stupenda città medioevale, caratterizzata dalla presenza d’imponenti mura di cinta cinquecentesche, che racchiudono come in uno scrigno i fascinosi e turriti palazzi nobiliari e le preziose ed eleganti chiese in stile romanico pisano-lucchese.
Il tarchiato e muscoloso portalettere Luca Bonicelli si svegliò di soprassalto, in un bagno di sudore, nel suo appartamentino di Via dei Bacchettoni e sedette sul letto. Per la terza notte consecutiva aveva sognato di camminare per le vie del centro con uno strano sottofondo musicale, seguito e minacciato da una pantera bianca, mentre le torri cittadine si piegavano a fissarlo e i muri dei vetusti edifici si stringevano su di lui, per schiacciarlo e inglobarlo al loro interno. Stava ormai per essere soffocato nella stretta della nuda pietra quando si era destato. Si era trattato di un incubo tanto spiacevole quanto sconcertante. Guardò l’ora. Erano le 6,30, mancava mezz’ora al richiamo della sveglia. Tanto valeva alzarsi.
A quella stessa ora l’ingegner Simone Benvenuti, cinquantenne smilzo eppur panciuto, i folti capelli completamente imbiancati, era già al lavoro nel suo studio, in via delle Conce. Vi si trovava fin dalle 6,00, per apportare gli ultimi ritocchi a un progetto da presentare in Comune. Quel mattino, come spesso gli accadeva, si era alzato prima dell’alba. D’altronde aveva troppo da fare per sprecare tempo a letto. Non dormiva mai più di quattro o cinque ore per notte e quando, come accadeva in quei giorni, era parecchio indaffarato, se ne faceva bastare perfino tre. Tuttavia stavolta qualcosa in lui non funzionava. Provava un’insolita forma d’oppressione, di cui non sapeva spiegarsi l’origine. Sentendosi sbalestrato, interruppe il lavoro e s’affacciò alla finestra. Da quel punto si scorgeva solo il palazzo di fronte e, sporgendosi in avanti e voltando la testa di lato, un breve tratto delle possenti fortificazioni sormontate da alberi, ma con gli occhi della mente abbracciò l’intera città, con i suoi edifici antichi e il suo fascino arcano.
Per un momento gli parve che dietro l’angolo facesse capolino, minacciosa, una scultura marmorea. Scrollò la testa per spazzar via dalla mente l’assurda immagine. Doveva semplicemente essersi confuso con un uomo in completo bianco. Tuttavia la breve visione l’aveva scosso. Da tre giorni ormai, non appena varcava le mura ed entrava nel venerando cuore di Lucca, cadeva vittima di anomale sensazioni. Gli era ad esempio accaduto appena mezz’ora prima, mentre passava dinanzi all’elegante Palazzo Pfanner, provenendo da casa sua in Borgo Giannotti diretto allo studio. Per alcuni secondi aveva sentito la terra tremare ed era stato colto dalla folle convinzione che le grandi sculture in marmo poste nel settecentesco giardino della villa stessero scendendo dai loro piedistalli per aggredirlo.
Negli ultimi tre giorni mille pensieri gli si erano affastellati nella mente, impedendogli di pensare e lavorare lucidamente. Per qualche irragionevole motivo covava l’impressione che Lucca lo respingesse e lo volesse addirittura assassinare. E ora il cuore gli batteva all’impazzata, si sentiva avvolto dall’ovatta e un anomalo ronzio gli impediva di udire bene eventuali altri rumori. Avrebbe forse dovuto recarsi da uno specialista, ma non sapeva decidersi. E quale medico, poi? Un cardiologo o un otorino? O, Iddio non volesse, uno psicopatologo?
L’assessore all’urbanistica Laura Giurlani, bassa e grassoccia, si recò come ogni giorno in Comune. Quel mattino si sentiva stanca. Da tre notti dormiva male, disturbata da incubi tanto intensi quanto sgradevoli, che si ripetevano non appena chiudeva occhio. Al risveglio non ricordava con chiarezza il soggetto del sogno, rammentava soltanto la sua paura e una bianca confusione di membra umane e feline, ma sapeva che si trattava di una terribile minaccia riferita a Lucca. Era come se la città volesse dirle qualcosa, anzi, come se nutrisse del rancore nei suoi confronti.
Era spiacevole che ciò le accadesse proprio quando stava per presentare il piano destinato a segnare il volto del capoluogo toscano per i successivi decenni e a decidere della sua carriera politica. Avrebbe invece avuto bisogno di essere lucida e concentrata per affrontare le inevitabili discussioni e lotte in consiglio. Forse però era naturale che succedesse allora. Il progetto l’aveva impegnata molto, tutte le sue giornate erano state faticosissime e magari durante la notte il suo inconscio scaricava la tensione attraverso i sogni. Una volta approvato si sarebbe di sicuro sentita meglio e di conseguenza avrebbe ripreso a dormire come si deve, ne era convinta. Si sforzò dunque di rilassarsi. Alle 11,15 aveva una riunione importante e voleva affrontarla al meglio delle sue forze.
Passeggio per le vie medievali di Lucca. Attraverso la lunga e stretta Via Fillungo e poi Piazza dell’Anfiteatro, così chiamata perché le case ricalcano il perimetro dell’antico anfiteatro romano, intorno al quale furono costruite. Più avanti si apre Piazza San Frediano.
Benché semplice turista, conosco bene le tue strade e i tuoi segreti, oh Lucca. Son venuto così tante volte nel tuo fascinoso centro urbano, incantato dal tuo splendore! Stavolta però avverto insolite realtà. Colgo un’indefinibile presenza aliena occhieggiare tanto dai tombini quanto dai cornicioni. Non ero mai stato vittima di simili percezioni, prima d’ora. Non avrei neppure mai creduto di poterne provare. Mi passo una mano sui lunghi capelli, perplesso. Mi sento osservato, ma nessuno nei dintorni manifesta interesse nei miei confronti. Cosa mi prende, dunque?
Erano appena passate le 10 e la mente di Luca Bonicelli si smarriva. Il funzionario consegnava la posta come ogni mattina, tuttavia si sentiva strano e confuso. Attraversava il centro storico di Lucca come se fosse stato avvolto nella nebbia. Percorreva le strette vie e a tratti le pareti degli antichi palazzi gli parevano intenzionate a stringersi su di lui. Erano tre notti di fila che faceva un sogno analogo, evidentemente se ne stava facendo condizionare. Fatto sta che attraversando strade e piazze si sentiva oppresso da una sensazione ignota.
Svoltò in un vicolo e dinanzi a lui il campanile di San Frediano si stagliò in tutta la sua imponenza. Alzò gli occhi ad osservarlo, possente e merlato, in tutto e per tutto simile a una torre civica nata a scopo protettivo. In città molti campanili presentavano questo aspetto militaresco, come se le medievali gerarchie religiose avessero voluto competere con le famiglie nobili loro coeve in ambito civile. Erano difatti queste ultime, come accadeva peraltro in tante altre parti d’Italia, a far edificare torri difensive sui loro palazzi, innalzandole poi verso il cielo in una corsa a chi arrivava più in alto, a diretta testimonianza della potenza e ricchezza del committente.
Eccolo dunque lì, a un tempo massiccio e slanciato. Una finestrella angusta e solitaria si apriva a un terzo circa del percorso. Ai piani superiori le aperture aumentavano di numero e colonnine le suddividevano dapprima in bifore, quindi in trifore e infine, verso la cima, in spaziose quadrifore, come occhi di gigante sempre più grandi.
Bonicelli si sorprese del paragone. Non sapeva da dove gli venisse, neppure quando era piccino le finestre gli rammentavano degli occhi. Guardò di nuovo la torre e d’improvviso si sentì osservato. Ma da chi e come? In quel momento un paio di persone entravano nel vicolo e una terza, indistinguibile in lontananza, passava in bicicletta, ma ognuno pareva farsi i fatti propri. Alzò lo sguardo. Alle finestre circostanti non si scorgeva anima viva. Eppure la sensazione persisteva. E all’improvviso comprese. Era un’intuizione illogica e folle, eppure gli si affacciò nella mente con la solidità di una certezza assoluta: era il campanile stesso a spiarlo.
Riportò lo sguardo verso l’alta e possente torre merlata e, come in risposta alla sua attenzione, questa cominciò a spostarsi. Dapprima fu un movimento impercettibile, ma subito si fece più evidente. La torre s’incurvava. Piegata in avanti, rivolta verso di lui, lo guardò coi suoi immensi occhi multipli. In quello stesso momento i palazzi del vicolo parvero di nuovo ondeggiare e stringersi per schiacciarlo. Bonicelli provò una senso di vertigine e per non cadere dovette serrare le palpebre e appoggiarsi alla parete più vicina. Si sentiva male, ma l’ipotesi che davvero la torre campanaria si fosse curvata ad osservarlo o che i palazzi lo accostassero gli pareva dissennata. La percezione appena provata non poteva essere frutto che di un’allucinazione. Non osava più riaprire gli occhi. Cosa poteva significare tutto ciò? Era sano, forte e ancora giovane, dopotutto aveva appena trentasette anni. Non beveva mai più d’un bicchiere a pasto né si era mai drogato. Perché avrebbe dovuto succedergli un’assurdità del genere? Quali allucinazioni potevano colpire un uomo esente da ogni malanno? Lui stava sempre bene perfino all’epoca in cui il sistema immunitario si doveva ancora sviluppare appieno, unico bambino della sua scuola a non prendere mai l’influenza, tutt’al più un innocuo raffreddore.
Doveva essere immobile da parecchi secondi, ormai. E se nel frattempo la torre si stesse avvicinando, si domandò con una punta di panico, se fosse pronta a ghermirmi? Ma no, si rassicurò poi, ciò era impossibile, lo sapeva bene. Eppure era agitato: non poteva più tenere gli occhi chiusi, doveva aprirli, ora, subito, scoprire cosa stesse accadendo intorno a lui. Li spalancò, dunque, e si guardò freneticamente intorno.
Non stava accadendo nulla, naturalmente. Il campanile di san Frediano era immobile al suo posto, come sempre. In quel momento il vicolo era tranquillo e silenzioso. Nei paraggi c’era soltanto un tizio intento a guardarlo con aria vagamente preoccupata.
“Non si sente bene, per caso? Ha bisogno d’aiuto?” chiese costui quando s’accorse di aver attirato la sua attenzione.
Luca Bonicelli si affrettò a rassicurare che era tutto a posto, quindi l’osservò meglio. Era sul metro e settantacinque, volto ellittico, capelli piuttosto lunghi, occhiali fotocromatici. Nonostante l’aria mattutina ancora frizzante indossava una maglietta bianca a maniche corte. Su di essa campeggiavano quattro foto attraversate dalla scritta <<Savona e la sua provincia>>. Teneva in mano una fotocamera digitale. Era di certo un turista. Il forestiero fece un leggero cenno d’assenso con la testa e si avviò verso il centro, senza aggiunger verbo.
Bonicelli si riscosse e tentò di riprendere il suo giro. Continuava però a sentirsi strano e si muoveva come in trance. Ben presto un lieve capogiro lo costrinse a chiudere per qualche altro momento gli occhi.
Quando li riaprì, lo sguardo gli cadde sull’ingresso della pinacoteca nazionale, in via Galli Tassi. Perplesso sbatté le palpebre e si voltò. In apparenza proveniva da Via delle Conce o dalla Piazzetta delle Carceri, ma non avrebbe avuto motivo di compiere tale percorso, la sua area di consegne terminava assai prima, all’incrocio con Via degli Asili, era quindi del tutto fuori zona. Tentò di far mente locale, ma si rese conto con stupore di non sapere come vi fosse giunto. Dopo l’allucinazione sofferta e l’incontro col gitante non ricordava più nulla. Controllò la sacca della posta. Era ancora piena per metà. Era spaventosamente indietro col lavoro, eppure il suo orologio segnava le 11,20. Aveva perduto gli ultimi settanta settantacinque minuti.
A mezzogiorno l’ingegner Benvenuti ancora non si vedeva. Laura Giurlani era spazientita. Non era da lui, lo conosceva come un uomo puntualissimo. Possibile che giungesse con tale ritardo in una giornata così importante? Cosa diavolo stava combinando? Non poteva procedere con la relazione senza la sua presenza. Chiese qualche minuto di pausa per rintracciarlo. Il suo telefonino era spento, compose allora il numero fisso dello studio. Al quarto squillo la telefonata venne presa.
“Simone, sono Laura. Cosa fai ancora lì? Non ti sarai mica dimenticato della relazione?”
Le rispose però una voce sconosciuta. “Con chi parlo, scusi?”
“Uh, sono l’assessore all’urbanistica Giurlani. Chi è lei? Non c’è l’ingegnere?”
“Buon giorno assessore. Sono il maresciallo Cariddi. Purtroppo devo darle una cattiva notizia.”
Quella sera i coniugi Bonicelli cenavano in cucina, la tv sintonizzata su un tg, quando lo speaker annunciò un delitto eccellente a Lucca. L’ingegner Simone Benvenuti era stato assassinato nel suo studio, colpito da sette pugnalate al petto e alla schiena.
“Dio mio, no, Simone!” Gridò Emilia Bonicelli, accasciandosi sconvolta.
“Tu conoscevi quell’uomo, Emilia?” Chiese Luca, sorpreso.
La moglie lo guardò, scioccata. Le occorse qualche secondo per recuperare l’autocontrollo e rispondere al marito.
“Io, sì, cioè, un poco. Sai, Lucca è una città piccola, in fondo, non è strano. Mi era stato presentato alcuni anni fa. Era simpatico e gentile. Lo conoscevo appena, per la verità, ma sentire una notizia così, di qualcuno conosciuto di persona, anche se di sfuggita, fa un effetto terribile.”
Luca vide le lacrime scorrerle sulle guance e ne fu addolcito. Aveva sempre saputo che sua moglie era una persona sensibile. Doveva consolarla. Le si fece vicino e la strinse tra le braccia, ma una nuova scossa di terremoto ne spezzò il languore. Il lampadario prese a ballare, un vasetto scivolò dalla mensola e cadde sul pavimento, andando in pezzi. Marito e moglie si alzarono in piedi, agitati.
La Città pulsa e respira. Infonde suoni ed esterna visioni di se stessa e di sue parti, sconvolgendo la popolazione con tali apparizioni. L’urbe si scuote sulle proprie fondamenta e si smuove, causando violente scosse di terremoto. I lucchesi escono in strada, spaventati, tutto però sembra a posto. Nelle abitazioni è caduto qualche suppellettile, tuttavia in giro non si scorgono danni.
Lucca è furiosa e lo trasmette. Odia alcuni suoi cittadini e i loro progetti. Lucca vuole vedere loro morti e i progetti abbandonati. Trema e sospira e ogni tremito e sospiro è un’ulteriore scossa.
Luca Bonicelli percorreva le vie interne alla cinta muraria. Il borgo intero incombeva ostile su di lui, con i suoi edifici antichi, le sue torri e i suoi tetti di ardesia. All’improvviso una nivea pantera gli apparve davanti e lo fissò, dolce e crudele a un tempo. Con la zampa sinistra reggeva uno stemma, simbolo cittadino. La riconobbe. Era la pantera marmorea istallata sulla porta di santa Maria. La rocciosa belva fece le fusa e quel suo sinistro ronfare poco alla volta si tramutò in una voce umana, che ripeteva all’infinito la medesima parola… uccidi, uccidi, uccidi. Ma perché? E soprattutto, chi? Chi avrebbe dovuto uccidere? Si trattava peraltro di una voce nota. Apparteneva al forestiero che il giorno prima, presso San Frediano, gli aveva chiesto se stava bene.
Gli apparve poi la Vergine Maria, con la veste azzurra e tutta luccicante d’oro. Ella gli parlò con un’improbabile voce maschile, la stessa della pantera e dunque del turista ligure, esigendo la morte di qualcuno. Bonicelli non fece però in tempo a capire chi fosse il bersaglio da abbattere, perché si svegliò, di nuovo sconvolto e immerso in un bagno di sudore. L’incubo si era ripetuto per la quarta notte filata, ancora più intricato, accurato e sconvolgente delle volte precedenti.
Un’apparizione della Madonna? Si stava verificando un miracolo? Possibile? Lui come i pastorelli di Lourdes? Per commissionargli un omicidio? Assurdo e finanche ridicolo. E poi perché mai la Vergine Maria avrebbe dovuto rivolgersi proprio a lui, ateo convinto da sempre? Cercò di ricordare la scena appena vissuta. La Vergine si distingueva alla perfezione, non sembrava però una figura propriamente intera, sembrava piuttosto come… spezzettata, ecco. Strana impressione, invero. Ma spezzettata come? Luca cercò di schiarirsi le idee. Era come se fosse stata suddivisa in innumerevoli tasselli, in tante… e all’improvviso comprese. Era un mosaico. Da dove poteva giungergli siffatta visione? Dubitava che potesse avere origini lucchesi. Lui, da sempre appassionato della sua città, di cui si vantava di conoscere ogni angolo, ogni opera d’arte, non aveva mai visto quel particolare mosaico. E perché gli parlava con la voce del tipo incontrato dietro San Frediano?
Rivolgendo il pensiero alla chiesa, la sua preparazione culturale gli permise di trovare almeno un brandello della soluzione. La figura doveva appartenere al mosaico bizantineggiante, raro esempio di decorazione musiva in una facciata romanica, in San Frediano. Più precisamente era quella parte, in origine posizionata tra i dodici apostoli, che non esisteva più, perché in sua vece era stata aperta una stretta finestra. Per questo motivo non l’aveva individuata subito. Quanto alla voce, chissà, forse si era trattato soltanto di un escamotage del suo inconscio per farlo pensare, per associazione di idee, alla facciata della chiesa.
Pur sentendosi assai stanco, a quel punto il postino decise di alzarsi, di nuovo in largo anticipo sulla sveglia. Era ancora presto per recarsi al lavoro, tuttavia non gli andava di restare a casa. In attesa di prendere servizio decise allora di fare una passeggiata, ma appena incamminatosi ebbe una vertigine e poco dopo s’incamminò in una ben precisa direzione, di nuovo inconscio dei propri movimenti.
Laura Giurlani svolgeva le faccende domestiche nella sua casa di via Nazario Sauro, non lungi dalla stazione, quando suonarono alla porta. Guardò l’ora, erano le 7,10. Se ne sorprese, non era certo il momento di disturbare. D’altronde da quando si era assunta responsabilità amministrative era già accaduto che la cercassero in orari inopportuni. Doveva essere accaduto qualcosa di grave, però avrebbero dovuto telefonarle, prima di venire. Credono forse che un membro della giunta debba essere disponibile ventiquattrore su ventiquattro? Si chiese irritata.
Suonarono di nuovo. L’assessore Giurlani andò a rispondere di persona. Era, infatti, nubile e viveva sola. La sua era una scelta esistenziale, era contraria al matrimonio e diffidava dell’altro sesso. Non che i pretendenti avessero mai fatto la coda per lei, in verità.
“Sì, chi è?” Chiese titubante.
“Una raccomandata per lei, signora.”
Attraverso lo spioncino Laura Giurlani riconobbe la divisa. Non era il postino solito ed era in anticipo sull’orario di servizio, tuttavia aprì senza timore. L’uomo, tarchiato e assai muscoloso, le si avventò addosso a occhi sbarrati, brandendo un coltello. Laura urlò, mentre l’estraneo le afferrava un braccio con la mano libera e lo stringeva in una morsa ferrea. Ogni tentativo di divincolarsi risultò inutile, costui era troppo forte per lei. Fu del resto questione di pochi attimi, poi il pugnale le affondò una prima volta nel plesso solare, sollevando uno spruzzo di sangue e provocandole un’intensa fitta di dolore. Le energie la abbandonarono e il grido di paura si tramutò in un rantolo.