Il labirinto di Alchimista Bianco


Il portone si chiude alle mie spalle con uno schianto sordo seguito dal rumore di catenacci che scorrono.
Attendo qualche istante immobile paralizzata dalla paura che la vista si abitui al buio che mi circonda, rotto soltanto da alcune torce appese alle pareti di sasso scalpellato per ricavare lo stretto tunnel che mi si para davanti. L’aria è pesante e sa di morte. Il corridoio, non riesco a vederne il fondo da dove mi trovo ora, probabilmente perché non c’è, oppure ce ne sono troppi. Vorrei restare ferma, accoccolata a macerarmi nel mio infinito tormento ma sono conscia del fatto che, tra breve la porta si riaprirà e se sarò ancora qui, verrò trafitta dalle lance dei miei persecutori. Dall’altra parte del labirinto, alla fine del sadico gioco c’è l’uscita che mi porterà la libertà, almeno è quello che ci è stato detto. Comunque questo non è un gioco ma la lotta per la sopravvivenza e non l’ho certo voluto io; Euristeos Terzo, tiranno della città da cui provengo, la ricca Micene, mi ha scelto come una delle sette principesse greche da sacrificare all’appetito dell’orrido Minotauro; stessa sorte ad altrettanti ragazzi di stirpe regale.
Strana cultura la mia, impregnata di casualità e di rituali definiti dagli dei ai quali crediamo; secondo loro occorre sempre dare una possibilità di salvezza alla vittima del labirinto: “Il giudizio di Zeus” si chiama. Se il supremo dio lo vorrà, mi salverò raggiungendo l’uscita posta al lato estremo di questo dedalo, per farlo però dovrò attraversare la tana del mostro e uscirne indenne!
Avanzo, mano appoggiata al muro, nella penombra per circa venti passi lenti e pesanti quando mi si presenta il primo dei cento crocevia che compongono questo accrocchio di tunnel scavati nella nuda roccia; una retta, a destra oppure a sinistra! La mia mente vacilla inondata da una paura primordiale che mi rende incapace di scegliere, così, accidentalmente, imbocco quella di destra perché mi pare più illuminata dell’altra. Dal fondo del budello mi giunge l’eco di un portone che si chiude; immagino il volto soddisfatto dei miei carnefici: anche per quest’anno la ricca Micene ha nutrito il tremendo Minotauro, la paura è scongiurata.
Adesso posso contare soltanto su me stessa e, forse, sull’aiuto del fato. L’aria è stratificata e saturata da miasmi di carne morta, solo in alcuni punti il fetore diviene insopportabile: mi fermo e vomito. Mentre lo faccio, guardo la zona del pavimento sopra il quale si sta riversando il mio ultimo pasto decente, e la vedo. Illuminata da una pallida teda poco distante una mano mozzata e parzialmente scarnificata è cementata nel suo stesso sangue rappreso: vomito ancora, fino a che il mio stomaco è completamente svuotato. Lui non se ne accorge e i dolorosi conati divengono solo un vuoto urlo alla paura e alla disperazione per mio destino. Piango disperata, singulti inconsulti, incontrollabili e indesiderati squassano il mio petto… allora lo sento!
Attratto dal rumore e dall’odore qualcosa si avvicina, possente e pauroso.


Comincio a correre disperatamente attraversando trivi e scegliendo la via in modo del tutto casuale; la mia mente non reggerebbe il peso di un pensiero razionale ora, obnubilata dall’orrore più puro! Il tonfo sordo dei suoi passi mi segue, si avvicina sempre di più; sudo per il terrore, vorrei piangere ma non c’è tempo, devo salvare la mia vita; adesso. L’ennesimo bivio mi si para di fronte. Mi sono persa, non so più da dove sono venuta e dove sto andando. Ho due possibilità. La strada di destra è più cupa mentre la sinistra più illuminata, ma potrebbe essere un tranello per indurmi in errore. Ansimo indecisa, poi sordi gorgoglii e ruggiti subumani arrivano dalla strada buia: non ho scelta! Percorro il lungo corridoio, ormai non sento neanche più l’odore dei cadaveri in decomposizione che accompagnano la mia corsa come muti testimoni. L’aria si fa più rarefatta, o così almeno mi sembra, il mio respiro diventa pesante e faticoso, la corsa mi sta sfibrando: dopotutto io sono solo una delle decine di principesse dal regno miceneo non un’atleta allenata.
Eppure eccomi qui, vestita di una tunica logora e sporca di sangue, vomito e altri umori vitali correre freneticamente per salvare la mia stessa vita. Incespico in qualcosa, la debole luce delle torce poste a dieci passi l’una dall’altra non mi aiuta. Cado pesantemente su qualcosa di duro e di appuntito; la guancia destra ferita sanguina, sento il caldo liquido scendere lungo la gota. Con una punta di rabbia mi volto verso l’ostacolo e inorridisco. Disteso trasversalmente la parte alta di un uomo, o forse di una donna non so, visto che oramai sono solo delle misere ossa sbiancate dal tempo. Urlo la mia rabbiosa disperazione che rimbomba imprudente in quei sottili cunicoli, il labirinto prende e amplifica il suono, il mostro adesso sa dove sono quindi mi alzo e corro, nuovamente.  Il lungo corridoio che mi si para davanti è male illuminato ma riesco a percepire una presenza; in lontananza, sullo sfondo si erge l’ombra gigantesca di un orrido mostro con una grossa testa guarnita da due enormi corna. Il Minotauro; ora lo vedo e il mio cuore smette di pulsare nel petto, aspetta un attimo indeciso poi riparte con incredibile velocità, tanto forte che sento il sangue scorrere in ogni singola arteria. E’ la voglia di sopravvivere che lo spinge a battere sempre più forte e la mente lo segue, mi giro e corro con quanto fiato mi è rimasto in corpo; non so dove, questo infinito dedalo di claustrofobici fori nella roccia si stringe sempre di più dando l’impressione di voler crollarmi addosso a ogni passo. Il mostro è alle mie spalle, lo so, sento il suo respiro forte echeggiare tra le pareti, la sua velocità è costante mentre io sto esaurendo anche le ultime forze, quelle della disperazione.
Incrocio l’ennesimo bivio, sono distrutta sia fisicamente che psicologicamente, istintivamente svolto a sinistra… e la vedo. Una piccola ma elegante porticina bianca, sopra di lei sono dipinti in oro i simboli della città di Cnosso, è senz’altro l’uscita, la mia liberazione è vicina.
Con forza rinnovata volo verso di lei, ora la mia sorte è affidata a Zeus, se non pone altri ostacoli, potrei salvarmi; mentre mi avvicino, mi rendo conte della ridicola minutezza dell’usciolo e sorrido pensando all’astuzia di chi ha progettato questa incredibile trappola per uomini: io potrò attraversarla abbastanza agevolmente mentre il gigantesco Minotauro, no!
Arrivo trafelata e forzo la grande maniglia di rame: si apre. Mi precipito fuori dal labirinto tirando dietro la porta; mi sarei aspettata di vedere un prato verde, la luce del giorno oppure le aspre colline che circondano la città, invece mi ritrovo in una grande sala luminosa. Prendo un profondo respiro liberatorio, vorrei accasciarmi a terra e riposare per alcuni giorni ma non sono sola. Al centro della stanza vedo una grande tavola imbandita come si usa per le feste cretesi più importanti, accomodati dal lato opposto a me quattro persone fissano, sembrano attendermi. Due di loro li ho già visti il giorno prima quando, incaprettata come un manzo arrivai al porto di Agia Pelagia insieme a mio cugino, il principe Darius.
Fummo costretti a metterci in fila con altri dodici sfortunati, dono alla bramosia del mostro da parte delle altre città achee, Tirinto la grande, Atene la saggia, Sparta la forte, Pylos la nobile, Argo l’astuta e infine la mitica Tebe. In fila indiana fummo condotti a palazzo. Ad attendere la carovana di giovani vittime, con uno sguardo colmo di tristezza c’erano loro; il re Minosse e la sua bellissima sposa la regina Pasifae.
Ci redarguirono sul grande onore del nostro estremo sacrificio, piansero con i nostri genitori la perdita di simili, giovani vite a assicurarono i re che ci avevano accompagnati nel viaggio, che le offerte avrebbero mantenuto l’orrendo mostro lontano dalle loro case e placato la sua furia. Inoltre Zeus stesso avrebbe apprezzato l’ecatombe di giovani vite che si andava avvicinando e reso ancora più fertili le loro piantagioni e i loro campi coltivati, assicurando abbondanti messi e cibo per l’incipiente inverno.
Gli altri due invece non so chi siano, solo due uomini con la pelle scura, probabilmente nubiani che mi guardano seri, in contrasto con lo sguardo materno della regina Pasifae e di quello felice del re Minosse.
Lei si alza dal tavolo e si avvicina, la sua bellezza mi stordisce. Una candida veste bianca bordata con fili di seta e una ghirlanda d’oro abbelliscono il suo fisico statuario, mi carezza la guancia ferita, dolcemente.
«Ben arrivata Hester». Conosce il mio nome e questo mi onora.
«Ce l’ho fatta!» Dico con un sospiro «Ho attraversato il labirinto senza essere stata divorata dal Minotauro».
Lei mi guarda con quegli occhi strani, colore del mare in tempesta.
«Sei molto bella, mi dispiace». Aggiunge
«Di che cosa?»
«Nulla» Dice ritraendosi e tornando al fianco del marito.
Non le avevo notato prima ma due corpulenti guardie alle mie spalle mi bloccano, trovo questo molto strano, dovrei essere liberata, non arrestata nuovamente, la mia mente vagheggia speranzosa.
«Ho raggiunto la porta all’estremità del labirinto, Zeus vuole che io sia rilasciata: è il suo volere!» Minaccio.
Minosse si alza e si avvicina, la sua veste color porpora possiede disegni identici a quello della consorte, il serto anche.
«Sai quanti anni ho io?»
«Non ne ho idea, direi trenta, forse trentacinque». Azzardo mantenendomi bassa per blandire il regnante.
«Sei molto scaltra, ragazza. Comunque puoi tranquillamente dire trecentosessantacinque».
Lo guardo incredula, la mia mente comincia a concepire l’inimmaginabile.
<Che cosa volete da me? Ho sconfitto il labirinto, gli dei si offenderanno se mi torcerete anche solo un capello>.
Lui ride beffardamente «Gli dei, se esistono, hanno ben altro a cui pensare!»
La sorpresa si tramuta in paura e, alle successive parole della regina Pasifae questa muta in sgomento.
«Non esiste nessun Minotauro, non è mai esistito.»
«Allora qual è il motivo di questa pantomima?».
«Forse che i re Achei avrebbero sacrificato i loro più nobili figli se non avessero sentito sul loro collo l’alito di terrore dovuto alle scorrerie di un immortale mostro antropofago?».
«Certo che no; avrebbero preferito portare la guerra sul suolo che minacciava i loro eredi!».
«Giusto, ma se questo sacrificio fosse stato esatto da Zeus in persona, allora non avrebbero avuto altra scelta».
«Se non esiste nessun mostro da sfamare, allora perché io e i miei compagni siamo qui?».
Minosse si avvicina al mio viso sussurrandomi all’orecchio: «E chi dice che non esistono mostri antropofagi nell’isola di Creta».
Ormai tutto è chiaro, mi dimeno disperatamente ma la stretta dei miei guardiani è troppo forte ed io sono esausta, una sola domanda attraversa la mia mente.
«Perché?»
«Lascia chi ti presenti gli altri due commensali» risponde Pasifae indicando i due nubiani al suo fianco «i loro nomi poco importano e probabilmente non li pronuncerei neppure nel modo esatto, ti basti sapere che sono due potenti stregoni VooDoo!».
Ho già udito questo nome, nei racconti dei mercanti che tornavano da quelle terre oscure carichi di oro e pietre preziose. Ne parlavano con il reverenziale rispetto di chi ha visto cose che non può spiegare, di magia maligna in grado di sottomettere le anime delle vittime ignare al potere dello stregone, di mostri oscuri e di blasfemia allo stato puro. Adesso Minosse si rivolge direttamente a loro, anche se è chiaro che l’utilizzatore ultimo di quella spiegazione debba essere io.
«Questi stregoni, questi Mawe, sono in grado di strappare la tua energia vitale e la tua gioventù, attraverso il tuo sangue e la tua carne, della quale ci nutriremo; questa passerà a noi consentendoci di sconfiggere la morte ancora una volta».
Sarei voluta scoppiare in lacrime ma non ne avevo più e comunque sarebbe stato inutile, forse avrei persino preferito tornare in quel buio labirinto popolato solo da pupazzi mascherati da mostro e da paure ancestrali.
Uno dei due uomini di colore si alza e si avvicina, con terrore noto che brandisce un lungo e affilato coltello.
«Non temere» dice in un greco molto approssimativo «farò quanto più velocemente possibile».
«Puoi fidarti» sibilò Minosse «è davvero molto esperto nel suo campo!».
Le due possenti guardie mi avvicinano a un ceppo grigio di roccia dalla vaga forma di un fungo, noto alcune scanalature sulla superficie leggermente arcuata che indirizzano verso due ciotole d’oro poste sui due lati contrapposti. Dal loro colore rosso scarlatto capisco quale liquido scorre in quei canali ma ormai non ho più neppure la forza per disperarmi, una sorta di morbida rassegnazione si è impadronita di me.
Poi l’ultimo singulto di vita, istintivo quasi indesiderato; urlo, scalcio, tiro con tutta la forza rimasta per liberarmi da quella mortale stretta ma è tutto inutile. Pochi attimi dopo la mia testa è sul ceppo, schiacciata con forza contro la fredda pietra, l’odore disgustoso di sangue rappreso affonda nei miei polmoni e mi toglie il fiato.
Non lo vedo neppure arrivare e nemmeno lo sento tagliare la mia gola tanto la lama è affilata, soltanto dopo qualche attimo mi accorgo che i piccoli solchi si stanno riempiendo di un liquido rosso e viscoso, con orrore mi rendo conto che è il mio sangue!
La vista si appanna nel momento esatto in cui li vedo bere avidamente dalle loro coppe; prima di spegnermi provo una grande stanchezza, un intorpidimento agli arti e una sorta di delirio; in tutto questo lancio la mia maledizione verso quelle creature bestiali: poi il buio mi avvolge.

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