Qualcuno mi attende di Massimo Bianco



Solo. In ogni ora di ciascun giorno della sua triste esistenza Francesco Martelli si sentiva solo. Quando era impegnato nell'officina meccanica non aveva tempo di pensare alla propria solitudine e poteva sopportarla. Era dura però tornare a casa la sera, stanco morto dal lavoro, senza mai qualcuno ad attenderlo; prepararsi in silenzio la cena, consumarla e non un anima a cui augurare buon appetito; guardare un film alla tv senza scambiare pareri sulla trama. D'inverno poi, quando faceva buio presto, trovava la sua clausura ancora più insostenibile e così, per avere una sensazione di calore umano, al rientro accendeva tutte le luci di casa, neanche fosse stato un bimbo timoroso del babau dissimulato nelle tenebre, e metteva la musica a tutto volume.
E che gusto c'era ad avere l'intero fine settimana libero senza una persona con cui trascorrerlo? Gli sarebbe piaciuto approfittare delle domeniche per andare in gita da qualche parte, un luogo qualsiasi sarebbe andato bene, pur di non starsene chiuso tra quattro mura. In compagnia di chi, però? Ah, se solo avesse avuto una moglie con cui condividere l'esistenza. Con una brava ragazza da amare era sicuro che tutto per lui sarebbe stato diverso, così invece...
La solitudine gli pesava al punto da spingerlo a parlare da solo. La mattina appena alzato, ad esempio, si soffermava dinanzi alla propria immagine nello specchio del bagno e gli rivolgeva la parola, dandosi perfino le risposte mutando la propria voce.
«Ciao Secondo, come va? Per me si prospetta una dura giornata, sai?»
«Oh, mi spiace, Primo. Come mai?»
«Una compagnia di taxi da oggi comincerà a portarmi i mezzi da revisionare, un lavoraccio.»
Era talmente consolidata ormai l'abitudine a scambiare opinioni col proprio riflesso, da sembrargli quasi di confrontarsi con una persona autentica, magari il fratello gemello mai avuto. Tutto era iniziato come un semplice gioco, ben presto però si era trasformato in uno sfogo necessario. Si rendeva conto che i più l'avrebbero considerato pazzo e per quanto ne sapeva avrebbe anche potuto esserlo, benché non ci credesse, ma non gliene importava.
Da giovane almeno aveva avuto un hobby che lo appassionava e a cui dedicava gran parte del tempo libero. L'aveva appreso da Damiano, un lupo solitario come lui, un ragazzo poco più anziano con cui era subito entrato in sintonia e che per parecchi anni era stato il suo unico vero amico. Insieme ci si dedicavano anche fino a notte fonda, nell'incomprensione di chiunque ne fosse a conoscenza, incapace di capire che gusto potessero trarre da un simile macabro interesse. Perché macabro, poi? Francesco non riusciva a capire come la gente ragionasse. Per lui quel passatempo rappresentava la vita, non la morte. L'avrebbe anzi trasformato volentieri in una professione, se non avesse temuto di non poterne trarre un guadagno sufficiente. Ormai però non ci pensava più da tanto tempo. Infatti, un tragico giorno Damiano si era scoperto un tumore maligno e, ad appena tre mesi dalla diagnosi, era morto in un letto d'ospedale, quando non aveva neppure quarant'anni. Francesco da allora aveva abbandonato l'attività: senza una persona con cui condividerla non ne ricavava più alcun piacere.
Avrebbe forse dovuto trovarsi un altro svago, uno che gli permettesse d'incontrare gente. Durante la settimana si sentiva però troppo sfinito per andarsene in giro la sera e poi frequentare estranei lo metteva a disagio, quando non poteva nascondersi dietro al formale rapporto meccanico cliente. Rammentava ancora fin troppo bene la figuraccia sofferta a un corso teatrale, quando era stato incapace di spiccicare parola pur avendo imparato il testo a memoria e non ci aveva mai più riprovato.
Un piccolo diversivo però esisteva. Si recava ogni sabato pomeriggio in autobus, dalla parte opposta della città, a praticare il volontariato nel canile municipale. Infatti lui, che per mestiere si occupava di automobili, quando poteva evitava di guidare. E da circa un anno sulla corriera che lo conduceva a destinazione c'era Lei. Si chiamava Gemma.
Ci si imbatteva ogni volta che saliva a bordo della corsa delle 14,45. Osservandola aveva provato un'istintiva simpatia per quella donna così riservata e dimessa, senza trucco e vestita in abiti anonimi e antiquati, talmente sformati da nasconderle i seni, che pur s'indovinavano generosi sotto l'abituale palandrana. Non era bella, eppure la trovava seducente.
L'autobus era ancora semi vuoto, quando giungeva alla sua fermata. Così, malgrado sulle prime non osasse sederle proprio a fianco, ben presto aveva preso l'abitudine di accomodarsi nei pressi e da allora, dopo le iniziali ritrosie, tra loro era stato tutto un gioco di sguardi teneri e di ammiccamenti. Sentiva dunque di piacerle, nonostante il suo aspetto insignificante, la bassa statura e la calvizie incipiente sul cocuzzolo. Gemma però era introversa quanto e più di lui e c'erano voluti mesi prima che ardissero rivolgersi la parola, nulla più, peraltro, di un timido scambio di saluti e di un prudente commento sul tempo. Tuttavia poco per volta erano entrati in confidenza e ormai chiacchieravano per l'intero percorso.
Francesco aspettava con ansia il sabato pomeriggio, il suo impegno trasformato ormai in una mera scusa per incontrarla, e quando non ce la trovava si agitava, ponendosi mille domande sulla sua assenza, mentre gli abituali trentacinque minuti di viaggio, che di solito passavano in un baleno, parevano interminabili.
Intanto l'autunno era agli sgoccioli, si approssimavano le festività di fine anno e Francesco fremeva: che bello sarebbe stato trascorrerle per la prima volta in compagnia dopo tanti anni. Gli sarebbe piaciuto invitarla da qualche parte per capodanno o magari consumare il cenone di Natale a casa sua. Sapeva, infatti, che nemmeno lei aveva una famiglia con cui passarlo. Glielo aveva rivelato la settimana precedente, in uno dei rari momenti di autentica intimità: il padre li aveva abbandonati quando lei era ancora bambina e non ne aveva più saputo nulla, la madre era mancata quindici anni dopo e non aveva contatti col restante parentado.
A ogni modo un sabato di novembre Francesco montò a bordo come al solito e la vide seduta nel posto che occupava d'abitudine, in fondo alla corriera, accanto all'ultimo finestrino, dall'altro lato rispetto all'entrata.
«Ciao Gemma, come va?» la salutò, accomodandosi sul sedile di fronte.
«Oh, io bene. E tu, Francesco? Hai un bell'aspetto, oggi. Ti dona quella giacca.»
«Grazie, te invece sempre con quei vestiti neri o grigi, eh? Mi piacerebbe, sai, vederti con più colore. Però hai cambiato pettinatura, vero?»
«Te ne sei accorto! Cosa ne dici, mi sta bene?»
«Benissimo, una visita dal parrucchiere ogni tanto ci vuole, ti ringio... cioè, ti dona.»
«E tu, invece?»
«Ah, eh, cara mia, io, col mio lavoro, lo sai, mi manca il tempo.»
«Non lo dicevo per criticarti, però, solo che l'inverno è vicino e qui c'è sempre 'sto vento!»
«Sì lo so, non l'ho presa per una critica e anzi, a proposito, senti Gemma, io... beh...»
«Li hai visti questa settimana gli episodi di The Mentalist?» l'interruppe lei.
«Ah, sì, sì. Li conoscevo già, però.»
«Oh, anch'io, ma quel riccone in fondo è un personaggio simpatico, mentre l'episodio in cui Patrick Jane viene sequestrato è in assoluto uno dei miei preferiti, mi è piaciuto rivederli...»
Era all'incirca questo l'abituale tenore dei loro dialoghi. Non un granché, Francesco doveva riconoscerlo: due adolescenti sarebbero stati più intraprendenti. D'altronde quando provava a esporsi maggiormente Gemma pareva rattrappirsi, obbligandolo a tornare ai soliti innocui argomenti. Inoltre da alcuni sottintesi intuiva un qualche antico trauma a impedirle di guardare al sesso con serenità.
Di solito accettava tutto ciò con fatalismo, stavolta però era furioso con se stesso per essersi impappinato, lasciandosi così sviare. Conscio di aver sprecato l'ennesima opportunità, una volta congedatosi si trattenne a stento dallo scaricare la propria rabbia contro il primo malcapitato. Infine, appena rientrato a casa, affibbiò alla porta del soggiorno un calcio talmente violento da sfondarla e solo a quel punto recuperò il proprio autocontrollo.
Presto sarebbe già stato dicembre, per giunta il secondo da quando si erano conosciuti: doveva decidersi. Tanto più che aveva sempre desiderato dei figlioli, suoi ideali bastoni della vecchiaia, ma le lancette dell'orologio biologico correvano inesorabili: Francesco aveva quarantasei anni, Gemma quarantatré. Quanto avevano a disposizione prima che lei entrasse in menopausa?
Sapeva d'altronde che quella era la sua natura e non poteva farci nulla. Figlio unico di genitori a loro volta figli unici, aveva un carattere chiuso e difficile già da bambino, noioso agli occhi di ogni coetaneo e incapace di stringere amicizie sia a scuola sia altrove. E la prematura scomparsa del padre, avvenuta quando lui aveva appena sedici anni impedendogli anche di proseguire gli studi dopo il diploma, non lo aveva certo aiutato. A diciannove anni era stato quindi assunto come apprendista nell'officina meccanica di un taciturno vecchio amico di famiglia. Undici anni dopo ne aveva rilevato l'attività, unico titolare e impiegato della ditta. Nel frattempo era morta anche la madre, storie sentimentali non ne aveva mai avute e così, una volta defunto pure Damiano, suo esclusivo autentico rapporto umano, si era ritrovato del tutto privo di legami. E ormai Francesco Martelli sentiva di odiare l'intera umanità, per come essa l'aveva esiliato. Gli era rimasta un'ultima speranza di normalità: lei gli pareva diversa dagli altri, doveva approfittarne.
La volta seguente, salito sull'autobus con piglio più deciso del solito, ebbe la spiacevole sorpresa di non trovarla a bordo e, con somma costernazione, non la vide neppure il sabato ancora successivo. Avrebbe dunque trascorso un altro capodanno nell'abbandono del proprio appartamento? Guardando dentro se stesso capì di non poterlo più sopportare. Ma cosa le era successo? Sulle pagine bianche al suo cognome il numero di telefono non era riportato e non se la sentiva di presentarsi a casa non invitato. Pur ignorando l'indirizzo esatto, sapeva però in quale via risiedeva, una traversa cieca e poco frequentata all'estremità nord del suo stesso quartiere. Perciò il lunedì chiuse l'officina per malattia, ben deciso a girovagare da quelle parti fino a quando l'avesse incontrata o avesse trovato la maniera di ottenere sue notizie.
Era il tardo pomeriggio di martedì, quando Francesco la vide sbucare dal portone, salutare un uomo robusto in attesa e avviarsi in sua compagnia. Allora la seguì senza farsi notare, in preda a un'ira così intensa da farlo tremare. Li osservò soffermarsi davanti alle vetrine dalla strada principale del rione ed entrare infine in una rinomata pizzeria. Un paio d'ore dopo i due ne fuoriuscirono e tornarono al punto di partenza, dove si trattennero a discorrere, l'uno di fronte all'altra.
Rimasto a spiarli poco lontano, ben presto notò Gemma spingere l'uscio, che non era chiuso a chiave, con l'intenzione di rientrare e lo sconosciuto appressarsi allora irruente e, nonostante la preliminare resistenza di lei, baciarla con veemenza, infine pienamente ricambiato. Nello stesso istante Francesco strinse i pugni e digrignò i denti, trattenendosi a stento da irrompere e mettere le mani addosso a entrambi, in preda a una furia quasi incontrollabile. Mai la consapevolezza della propria anormalità nel rapportarsi con il prossimo gli era dolorosamente bruciata come in quel momento.
Ma di una cosa sono certo - rimuginò rincasando silenzioso, ancora in piena ebollizione - che a te piaccia oppure no, non trascorrerò l'ennesimo fine anno solitario. Ti avrò, come è vero Iddio; in una maniera o nell'altra sarai mia, lo giuro.
Quella sera ripensò così allo svago a cui aveva dedicato tanti bei momenti della giovinezza. Benché non mettesse piede in cantina da almeno dieci anni e tutto oramai dovesse essere ricoperto da uno spesso strato di polvere, conservava l'intera attrezzatura e non aveva mai dimenticato come utilizzarla. Inoltre riteneva di conoscere Gemma abbastanza da dubitare che avesse mai parlato di lui con qualcuno, nuovo arrivato compreso. Alla gente egli doveva apparire soltanto come un semplice conoscente qualsiasi della donna, con cui occasionalmente costei scambiava quattro parole in autobus. Sì, ora sapeva davvero come comportarsi. La voleva e l'avrebbe avuta. Non sarebbe stato mai più solo, per l'eternità.
Il giorno dopo lavorò come al solito, ma una volta rientrato si dedicò a studiare con attenzione il piano d'azione e a prepararsi. Appena l'una di notte fu passata uscì. Con un colpo di fortuna trovò parcheggio proprio di fronte all'abitazione di lei. Scese dall'auto e attraversò, di ottimo umore, la strada deserta e male illuminata. Giunto quindi davanti al portone lo spalancò e sorrise, sicuro di sé.
«Sto arrivando, amore mio, sto arrivando.»

Gemma dormiva serena, rannicchiata in posizione fetale. Presto però prese ad agitarsi nel sonno e dopo qualche istante si svegliò. Cosa mi avrà disturbata? Si domandò, ancora mezzo intontita. Intorno a lei tutto taceva. Afferrata la sveglia sul comodino vide che era soltanto l'1,30 e che quindi dormiva da appena due ore. Se ne meravigliò, non le capitava mai di risvegliarsi così presto.
Un istante dopo le parve di udire un rumore e si ridestò del tutto. Non riusciva, infatti, a inquadrarlo. Si mise allora a sedere sul letto e tese l'orecchio, innervosita. Nei minuti successivi non udì più nulla. L'abitazione era immersa nel silenzio, eppure non poté tranquillizzarsi. Non era in grado di stabilire di che si trattasse, tuttavia qualcosa c'era, se lo sentiva. Poi l'indefinibile rumore si ripeté e il cuore prese a batterle all'impazzata. Sì, qualcosa dopotutto stava succedendo. Incerta sul da farsi, accese la abajour e posò, esitante, i piedi a terra. Ma si era appena infilata le pantofole quando vide la maniglia della porta abbassarsi e s'immobilizzò, terrorizzata. Spalancò quindi la bocca per gridare, la voce rifiutò però di sgorgarle dalla gola.

                                                                                 ***

Era dura stare dietro a un'officina meccanica quando non ci si poteva permettere un lavorante. Per giunta sotto Natale le riparazioni da effettuare tendevano a moltiplicarsi e non di rado Francesco finiva per rincasare piuttosto tardi. Per fortuna, però, per lui l'ultimo giorno dell'anno sarebbe stato anche l'ultimo di lavoro prima di un meritato periodo di ferie. Necessitava di una settimana di relax, dopo tanti anni che non si prendeva una vera vacanza. Avrebbe chiuso il garage alle 17,00 in punto e non avrebbe più pensato a motori da riparare fino al martedì successivo compreso. E ad aspettarlo adesso c'era Gemma.
Appena terminato di dedicarsi alla storica 600 di un vecchio cliente, tirò giù la saracinesca e se ne andò, felice. Era in lieve anticipo rispetto all'orario stabilito, ma d'altronde non stava più nella pelle dal desiderio di rincasare. Arrivato nella sua via che era ormai praticamente buio, alzò gli occhi alla finestra del terzo piano. L'intravvedere il pallido lucore intermittente dell'albero natalizio gli fece bene al cuore e lo spinse a sostare qualche secondo in contemplazione.
Presto però si riscosse e s'infilò in fretta nell'androne, con la mente già rivolta al focolare domestico. Il suo appartamento non era grande, tuttavia gli andava bene così. C'era un piccolo e disadorno ingresso a sala, con sulla destra la cucina abitabile e il bagno e sulla sinistra una camera abbastanza spaziosa da permettergli di aggiungere a letto, comodino, bureau e guardaroba anche una tv, un impianto stereofonico, una scaffalatura in cui riporre cd e dvd e un tavolinetto con due poltrone. Era in quest'ultimo locale che trascorreva la maggior parte del tempo libero ed era lì, in un angolo, che aveva installato l'albero di Natale.
Troppo impaziente per attendere l'ascensore, salì a due a due gli scalini e, giunto davanti all'uscio, infilò le chiavi nella toppa ed entrò senza ulteriore indugio.
«Ciao, sono tornato, amore mio. Tutto bene?» chiese ad alta voce.
«Sì, Francesco. E a te come va? Ti attendevo con ansia, sai?»
«Anch'io Gemma, anch'io non vedevo l'ora di rivederti, sono così contento che ora qualcuno mi attende.»
Si tolse il cappotto e lo lanciò sull'attaccapanni situato a destra della porta, subito a fianco di una vecchia poltrona, quindi attraversò la saletta, rivolgendo un'occhiata distratta al gufo e al fagiano, alla volpe e alla marmotta che lo fissavano, col loro vitreo sguardo, dai due ripiani posti dietro l'ampia vetrata dell'unico altro mobile dell'ambiente. Appena li ebbe superati, tornò come sempre a chiedersi perché tanto sua madre quanto i genitori del suo caro amico Damiano trovassero così macabro il loro hobby. Dopotutto grazie ad esso quelle bestiole sarebbero esistite in eterno.
«Eccomi qua. Sei bellissima in nero, sai, però l'anno prossimo un bell'abito multicolore te lo voglio proprio regalare» esclamò infine entrando nella propria camera, rivolgendosi giulivo al corpo impagliato e imbalsamato dell'amata, che lo attendeva eretto ai piedi del letto.

1 commento:

  1. Un gradito ritorno sull'Isola di Rayba.
    Sbarca ancora una volta tra noi il preparato e talentuoso Massimo Bianco con il racconto "Qualcuno mi attende", tratto dalla raccolta di racconti collettiva "Autoesorcismi per pitture nere", Storie di AA.VV.
    Il racconto è ispirato al dipinto di Goya "La Leocadia" ed è ubicato nella struttura della Quinta del Sordo al pianterreno, abbinato al tema "L'affetto familiare".
    http://www.lulu.com/shop/storie-di-aavv/autoesorcismi-per-pitture-nere/ebook/product-21630823.html

    A un anno dall'uscita di quella raccolta che tanta gioia e sbattimento mi ha procurato, voglio ricordare quel libriccino con questo racconto che ho davvero molto amato.
    Con stima e ringraziamento, Massimo
    Abbi gioia da Mauro Banfi il Moscone

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In questa Isola sono accettati commenti critici costruttivi, anche insistiti e dettagliati, ma mai, ripeto mai offese di carattere personale, lesive della dignità umana degli autori.
Chi sbarca su Rayba si regoli di conseguenza. Qua il nichilismo non c'interessa, grazie.