Paolo stava acquattato dietro la porta di camera sua, l’orecchio teso a percepire il minimo rumore.
Erano soli in casa, presto avrebbe sentito i passi di suo fratello Manuel sulle scale.
Quel rumore… uno dei tanti volti della paura.
Pensò ai compagni di scuola, che non sapevano nulla del suo inferno, al contrario, pensavano fosse un privilegiato, perché era il piccolo di casa, il cocco di mamma e papà.
Il figlio bello. Serrò le labbra in una smorfia di disgusto.
Ormai era solo questione di tempo: ogni volta che i genitori li lasciavano soli, il copione si ripeteva con lugubre esattezza.
Prima di uscire ripetevano le solite, dovute raccomandazioni a suo fratello, il primogenito, mentre lui se ne stava in disparte con gli occhi bassi:
“Manuel, noi andiamo”
“Sì, mamma”
“Mi raccomando, stai attento a tuo fratello, vedi che non si faccia male.”
“Sì, mamma”
“E ricordati che sei il più grande. Dai il buon esempio”
“Sì, papà”
Altro che buon esempio. Sapeva che Manuel lo odiava, che l’aveva odiato subito, sin dal primo giorno, al di là del vetro della nursery. Lo sapeva perché un giorno suo fratello gliel’aveva detto. Alla nursery Manuel aveva ascoltato in silenzio i commenti di amici e parenti: che bel bambino, che dolce, guarda le manine, i piedini…
Aveva ascoltato tenendo lo sguardo fisso su di lui: se solo avesse potuto l’avrebbe ucciso all’istante, senza pensarci un attimo. Invece aveva fatto dondolare la mano in quella di papà, più forte, sempre più forte, finché i loro polsi non avevano sbattuto sul vetro con un tonfo sordo che gli era esploso nelle orecchie strappandolo al sonno.
Manuel gli aveva raccontato come l’aveva visto spalancare gli occhi e la bocca, con un sussulto improvviso, e come aveva annaspato con le mani in alto, nell’aria asettica dell’ospedale.
“Infermiera, cos’ha il bambino?” aveva chiesto mamma
“Niente, signora, è un riflesso condizionato”
Da quel giorno il “riflesso condizionato” l’aveva perseguitato con implacabile costanza.
Non c’era niente che potesse fare per mettersi al riparo dalla sua rabbia: aveva osato nascere dopo di lui, mostrando al mondo l’esito di un’altra possibilità.
Una possibilità migliore della prima. Imperdonabile.
La macchina di mamma e papà non si vedeva più, neanche sporgendosi al massimo fuori dal balcone. Manuel pensava a Paolo: se fosse stato appena un po’ più brutto, o più stupido, se avesse avuto un piccolo difetto – le gambe storte, una voglia sfacciata in posti inopportuni, le spalle curve – forse avrebbe potuto perdonarlo. Ma era più bello, più intelligente, più simpatico. Più amato. Insopportabile.
Col passare del tempo - solo in virtù di un buon risultato genetico – era diventato il prescelto, il preferito. Nessun merito, nessuna colpa. Un semplice stato di fatto che ribadiva l’ingiustizia del mondo. E poi tutti quei confronti. Com’è bravo Paolo. E quei discorsi…oh sì, il piccolo è molto più calmo, un bambino dolcissimo, per fortuna sai, perché Manuel…
Manuel cosa? Questa mania dei grandi di lasciare tutti i discorsi a metà.
Manuel era lui, ed era deciso a fargliela pagare.
Paolo tremava: ecco il rumore della paura, un avanzare metodico che preannunciava…cosa?
Tutto.
A volte la porta si spalancava di colpo: Manuel, il suo fratello grande, lo fissava senza espressione, poi lo colpiva allo stomaco senza una parola e se se andava. Altre lo scherniva dandogli della femminuccia, dell’invertebrato, del cretino. Poteva continuare per ore con litanie di insulti, ogni parola una frustata. Altre ancora sembrava non vederlo: lo attraversava come l’aria della stanza.
Una volta gli aveva bruciato le mani col ferro da stiro. Poteva riempire la vasca da bagno e tenergli la testa sott’acqua fino a fargli scoppiare i polmoni, o premergli le lame del trinciapollo sulla gola, guardandolo sbiancare con un sorriso sadico.
Conosceva tutto questo, ma c’era di più: suo fratello non si limitava ad odiarlo.
A volte l’amava, di quell’amore che divora l’altro per portarlo con sé, ma lui non sapeva mai – per tutta la durata dei passi – se sarebbe stato l’amore o l’odio a varcare la porta.
La maniglia si abbassò. Manuel lo guardava in silenzio. Poi cominciò a sfotterlo, raccontando una strana storia di zingari. Grazie agli zingari, avrebbe potuto trasformarlo in un verme, e non per modo di dire.
“Che ne dici, eh? Paolino lo schifino, sparito è il bel bambino! Ti piace la filastrocca?”
Paolo pensò che il desiderio del fratello di sbarazzarsi di lui l’avesse portato alla pazzia, ma d’un tratto ricordò gli zingari accampati vicino casa.
Erano arrivati nella notte, poco tempo prima. I carrozzoni sbilenchi che ora punteggiavano la radura abbandonata davano un’aria sinistra all’intera zona. Paolo non si sarebbe mai avvicinato al campo. Immaginava gli sguardi inquietanti degli zingari, le loro unghie sporche.
Manuel, al contrario, affascinato dal diverso, aveva subito accettato l’invito della vecchia rugosa che lo fissava oltre la rete.
“Vieni, ragazzo – la voce arrochita emergeva dal mucchio di stracci – sei stanco, vero?”
Non aveva risposto, distratto dalla presenza di due grossi cani che lo annusavano curiosi. Adorava i cani, specialmente quelli grossi, ma sua madre non gli avrebbe mai permesso di tenere neppure un bassotto. I cani sporcano, sbavano e lasciano peli in giro, e non c’era niente da discutere. Paolo non si interessava di animali, a parte i fossili e quelli dei documentari televisivi, che non puzzano.
La voce della vecchia l’aveva riscosso dai suoi pensieri. Che voleva quella da lui? E poi, di che stanchezza stava parlando?
“Intendo la stanchezza dell’anima, ragazzo mio” aveva detto lei, come se se sapesse leggergli la mente.
Manuel l’aveva guardata con un sorriso che voleva essere di scherno, ma gli occhi attenti della donna lo mettevano a disagio. Aveva accarezzato i cani con fare noncurante, e poi si era girato per andarsene, ma la voce della vecchia era ancora lì.
“Puoi usare il tuo dolore per causare altro dolore, oppure puoi decidere cosa farne”
“Sarebbe a dire?” aveva chiesto senza fermarsi
“E’ semplice: trasforma la sofferenza e la causa del tuo dolore in qualcos’altro. Puoi farlo, se vuoi.”
Si era fermato alzando la mano come per ribattere qualcosa, ma subito dopo l’aveva riabbassata per ficcarsela in tasca con un gesto rabbioso. Ne aveva abbastanza, di quei deliri.
Ma le parole della zingara non lo abbandonarono. Continuò a rimuginare sul loro possibile significato finché, all’improvviso, capì.
Era stato a quel punto che aveva fatto irruzione in camera di Paolo. Poteva trasformare la sofferenza in qualcos’altro, così aveva detto la vecchia, e sebbene non ci fosse apparentemente alcuna logica in quello che gli era apparso tanto chiaro, non dubitò di poter trasformare suo fratello in un verme.
Paolo se lo vide addosso all’improvviso: avanzava verso di lui brandendo un barattolo di vetro.
Cosa voleva fargli?
Arretrò d’istinto ma, prima di poter capire da cosa guardarsi, precipitò dentro ad un orrore trasparente e vuoto.Intorno a lui pareti enormi e trasparenti come non ne aveva mai viste.
Era nel barattolo.
Realizzò – terrorizzato – che l’ombra gigantesca sopra di lui era la mano di Manuel che metteva il coperchio.
Ora i rumori giungevano ovattati, e le immagini del mondo esterno completamente distorte.
Vide l’orrore del suo corpo: non aveva più gambe, né braccia, e strisciava.
Non aveva più voce, ma la sua coscienza era intatta.
Era lui nel corpo di un verme, di tutti gli animali quello che gli faceva più ribrezzo.
Intanto Manuel si passava il barattolo da una mano all’altra con un enorme senso di trionfo. Finalmente suo fratello aveva l’aspetto che meritava. Così bravo, così silenzioso, così compiacente.
Così verme.
Era stato facile. Appoggiò la “cosa” sulla scrivania chiedendosi che farne. Dopo un po’ tornò a guardarlo. Vide che si contorceva nel tentativo di risalire lungo le lisce pareti di vetro e gli fece pena, cosa che lo mandò su tutte le furie.
Come poteva fargli pena? Gli aveva rovinato la vita.
Però, vederlo ridotto così….magari aveva fame. Magari sapeva che avrebbe potuto schiacciarlo come un niente.
Chissà che terrore.
Aprì il barattolo.
Paolo vide un occhio enorme affacciarsi all’imboccatura della sua prigione, poi un dito tre volte più grosso di lui lo raccolse e lo posò sul freddo coperchio di metallo.
“Stai male, eh? - il volume della voce di suo fratello lo sovrastava, come tutto il resto – pensa che potrei buttarti nel cesso e tirare lo sciacquone. Ma non lo farò. Sei sempre mio fratello, e mi fai pena, conciato così. Pazzesco, eh? Però te lo meritavi proprio, tanto per capire come ci si sente, da nullità…”
Manuel gli raccontò le cose che l’avevano fatto soffrire fin dal giorno in cui era nato.
Gli disse della visita al campo nomadi, dell’incontro con la vecchia e tutto il resto.
No, ripeté, non l’avrebbe buttato nel cesso. In fondo non era colpa sua, se i genitori lo preferivano a lui. Lo fissò con un ultimo sguardo intenso e consapevole e lasciò la camera.
Paolo si ritrovò al centro della stanza. Completamente stordito, ma nuovamente padrone del suo corpo, gettò uno sguardo al barattolo di vetro sulla scrivania.
“Questa – pensò – è l’ultima infamia che sono stato costretto a subire.”
Se era di dolore che si trattava ne aveva anche lui. Da vendere.
Ormai mancava poco al rientro dei genitori. I due fratelli si evitavano, ognuno perso nei propri pensieri.
Manuel si accorse che il fratello stava uscendo, ma non chiese nulla. Lo cercò qualche minuto dopo, ma sembrava scomparso. Il giro di ricognizione finì in giardino. Non era nemmeno lì, che andasse al diavolo, pensò scrollando le spalle.
D’un tratto il fruscio di un cespuglio attirò la sua attenzione. Pieno di meraviglia vide, immerso nel verde, un cane grande e bellissimo dal pelo bianco, che lo guardava scodinzolando bonario.
Come era arrivato lì? Gli corse incontro ridendo e chiamandolo a gran voce:
“Qua, bello, qua, vieni a giocare!”
Quando s’inginocchiò per abbracciarlo il cane balzò in avanti e l’azzannò alla gola.
L’ultima immagine di Manuel furono le grosse zampe bianche che lo inchiodavano a terra, e il rosso del sangue sui denti che gli squarciavano la pelle.
Cadde riverso sull’erba, con la testa all’indietro quasi staccata dal corpo.
I suoi occhi , spalancati e lucidi, erano ancora pieni di sorpresa.
L’urlo della madre dei due fratelli lacerava la casa. Il padre, in giardino, stringeva a sé il corpo del primogenito in un abbraccio scosso da singhiozzi convulsi.
La polizia trovò l’altro ragazzo nella stanza, in apparente stato di shock.
Teneva gli occhi sulla scrivania, dove c’era un barattolo di vetro vuoto, e continuava a rigirarsi tra le mani un ciuffo di peli biancastri.
Alle domande su cosa avesse visto rispose sempre allo stesso modo: erano stati i cani degli zingari.
Non aveva potuto farci niente.
Caspita, un racconto terrifico per me che sono una sorella maggiore! Vuoi dire che davvero se la prendono a male quando li trasformo in vermi? Da non credere.
RispondiEliminaComplimenti per la fantasia, il racconto scorre bene e la tua bravura non ti abbandona nemmeno nel genere weird :)