E
la quarta era andata. L’uomo alto, in abito scuro, che non parlava quasi mai,
scese dall’auto e si rifugiò in una vecchia catapecchia nella vasta boscaglia
appena fuori città. Quella piccola e malandata casupola era uno delle sue otto “tane”
sparse per tutta la metropoli.
Dopo
aver messo la valigetta al riparo, nelle quattro mura di legno umido e quasi
fradicio, si rimise sull’altrettanto vecchia automobile e percorse, con
difficoltà (il terreno – aveva appena finito di piovere – sembrava una distesa
di colla marrone) qualche metro, fino a giungere al laghetto.
Quando
fu fuori dall’auto, la spinse dentro lo specchio d’acqua, opaco e ronzante
d’insetti. Sarebbe scomparsa alla vista in pochi istanti.
Tra
il gocciolio dai rami degli arbusti, il frinire di cicale e il lontano fischio
di qualche uccello, al lontano dal caos metropolitano, l’uomo rientrò nella catapecchia,
pensando fosse ora di cambiare abito.
Il
vecchio bofonchiò qualcosa d’incomprensibile agli ultimi tre passanti, si alzò dondolando
e rischiando di cascare faccia a terra e svoltò nello stretto vicolo che da
chissà quanti anni era casa sua. Si grattò energicamente la fessura fra le
natiche e si sollevò alla bell’e meglio i pantaloni logori. Anche per oggi
poteva bastare. Non controllò nemmeno quanto aveva racimolato, tanto sapeva che
anche quel giorno, il livello di bontà, compassione, solidarietà e generosità
della gente era rasente lo zero. Ma vabbè.
In
fondo al vicolo c’erano le sue pidocchiose coperte male odoranti e vecchie di
secoli, ma pur sempre coperte. O quelle o morto di freddo. Pazienza, la vita
era una merda e, nella merda, doveva cercare di mettere almeno la testa fuori,
per respirare e sopravvivere.
Si
accasciò sulle coperte, dopo aver acceso un fuoco nel bidone a fianco, e fece
scivolare le poche monete del bicchiere nella sua mano. Poi le conservò nella
tasca interna del giubbotto. Quella di destra, visto che l’altra era bucata.
Salutò
Sasha, il murales leggermente sbiadito, sul muro di fronte, che rappresentava
una donna nuda, con le gambe divaricate in una posizione provocante. Sasha Grey is the way, c’era scritto
accanto. Così il vecchio – che poi non era così vecchio, anche se si sentiva
quasi morto, dentro – l’aveva chiamata “Sasha”. Le disse, con parole per lo più
sconnesse, che per quella sera era stanco, quindi non avrebbero fatto l’amore
(in realtà si limitava a masturbarsi guardando il graffito).
Il
pensiero che quella vita insulsa non era degna d’esser vissuta, gli passò in
fretta, per l’ennesima volta. Cercava di vedere sempre il lato positivo. O
quello meno negativo.
Poi
arrivò l’uomo.
«Per
oggi ho chiuso», gli disse (o, almeno, aveva voluto dire; sicuramente gli erano
uscite dalla bocca sillabe a caso). Si sforzò di fare meglio, ma tanto l’uomo
pareva non ascoltarlo. Indicò il bicchiere vuoto. «Amico, per oggi ho chiuso,
siete stati abbastanza tirchi anche oggi, non ho un cazzo anche oggi.»
L’uomo,
alto e in un cappotto blu scuro, lo osservava ma non parlava. Non parlò nemmeno
quando spalancò la bocca e sputò fuori una lingua che non era una lingua.
Sembrava una sorta d’escrescenza rossastra con alcune scaglie affilate e
appuntite sparse a caso, come le sillabe del vecchio.
Anche
il barbone aveva spalancato la bocca, stupito, mostrando una fila irregolare di
denti macchiati. E subito dopo aver aperto la bocca aveva sentito qualcosa di
viscido e affilato e tagliente intrufolarglisi dentro. Poi si era sentito quasi
sciogliere e aveva assistito a un breve e vomitevole spettacolo.
Il
vecchio si sentiva vicino alla morte, dentro, da parecchi anni, ormai. E adesso
era morto, da dentro.
L’uomo,
che adesso era dentro la pelle di un barbone, si stiracchiò nel suo nuovo
“abito”. Osservò, nell’asfalto bagnato, il vecchio abito, pelle umana, in un
involucro di abiti invernali, afflosciati.
Non
si era mai saputo spiegare come riuscisse a fare tutto ciò. L’unica cosa che
sapeva era che si trattava di qualcosa davvero utile. Non c’aveva perso molto
tempo a capire come sfruttare quel potere. O quello che era.
In
lontananza udì riecheggiare le sirene della polizia. Non riuscì a reprimere una
risata. Gettò i suoi resti nel bidone e lasciò il vicoletto, lanciando un’occhiata
al murales pornografico.
Mentre
tornava nella tana più vicina, fece un rapido calcolo. Gli sarebbero bastati
altri due cambi d’abito, al massimo. La valigetta odierna conteneva
quindicimila bigliettoni. Assieme alle tre rapine precedenti raggiungeva quasi
un milione. Sì, un altro paio di banche e un altro paio di abiti. Sarebbe
andato tutto a meraviglia.
Sorrise,
pregustando un caldo e profumato bagno, mentre benediva barboni, disagiati, poveri,
folli… tutti gli emarginati, i reietti. O, come li definiva una società
falsamente perbenista, i “meno fortunati”.
Fortuna
che, al contrario di quanto voleva far credere la società, nessuno badasse alla
loro assenza!
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