L'indossatore di 90Peppe90

E la quarta era andata. L’uomo alto, in abito scuro, che non parlava quasi mai, scese dall’auto e si rifugiò in una vecchia catapecchia nella vasta boscaglia appena fuori città. Quella piccola e malandata casupola era uno delle sue otto “tane” sparse per tutta la metropoli.
Dopo aver messo la valigetta al riparo, nelle quattro mura di legno umido e quasi fradicio, si rimise sull’altrettanto vecchia automobile e percorse, con difficoltà (il terreno – aveva appena finito di piovere – sembrava una distesa di colla marrone) qualche metro, fino a giungere al laghetto.
Quando fu fuori dall’auto, la spinse dentro lo specchio d’acqua, opaco e ronzante d’insetti. Sarebbe scomparsa alla vista in pochi istanti.
Tra il gocciolio dai rami degli arbusti, il frinire di cicale e il lontano fischio di qualche uccello, al lontano dal caos metropolitano, l’uomo rientrò nella catapecchia, pensando fosse ora di cambiare abito.

Il vecchio bofonchiò qualcosa d’incomprensibile agli ultimi tre passanti, si alzò dondolando e rischiando di cascare faccia a terra e svoltò nello stretto vicolo che da chissà quanti anni era casa sua. Si grattò energicamente la fessura fra le natiche e si sollevò alla bell’e meglio i pantaloni logori. Anche per oggi poteva bastare. Non controllò nemmeno quanto aveva racimolato, tanto sapeva che anche quel giorno, il livello di bontà, compassione, solidarietà e generosità della gente era rasente lo zero. Ma vabbè.
In fondo al vicolo c’erano le sue pidocchiose coperte male odoranti e vecchie di secoli, ma pur sempre coperte. O quelle o morto di freddo. Pazienza, la vita era una merda e, nella merda, doveva cercare di mettere almeno la testa fuori, per respirare e sopravvivere.  
Si accasciò sulle coperte, dopo aver acceso un fuoco nel bidone a fianco, e fece scivolare le poche monete del bicchiere nella sua mano. Poi le conservò nella tasca interna del giubbotto. Quella di destra, visto che l’altra era bucata.
Salutò Sasha, il murales leggermente sbiadito, sul muro di fronte, che rappresentava una donna nuda, con le gambe divaricate in una posizione provocante. Sasha Grey is the way, c’era scritto accanto. Così il vecchio – che poi non era così vecchio, anche se si sentiva quasi morto, dentro – l’aveva chiamata “Sasha”. Le disse, con parole per lo più sconnesse, che per quella sera era stanco, quindi non avrebbero fatto l’amore (in realtà si limitava a masturbarsi guardando il graffito).
Il pensiero che quella vita insulsa non era degna d’esser vissuta, gli passò in fretta, per l’ennesima volta. Cercava di vedere sempre il lato positivo. O quello meno negativo.
Poi arrivò l’uomo.
«Per oggi ho chiuso», gli disse (o, almeno, aveva voluto dire; sicuramente gli erano uscite dalla bocca sillabe a caso). Si sforzò di fare meglio, ma tanto l’uomo pareva non ascoltarlo. Indicò il bicchiere vuoto. «Amico, per oggi ho chiuso, siete stati abbastanza tirchi anche oggi, non ho un cazzo anche oggi.»
L’uomo, alto e in un cappotto blu scuro, lo osservava ma non parlava. Non parlò nemmeno quando spalancò la bocca e sputò fuori una lingua che non era una lingua. Sembrava una sorta d’escrescenza rossastra con alcune scaglie affilate e appuntite sparse a caso, come le sillabe del vecchio.
Anche il barbone aveva spalancato la bocca, stupito, mostrando una fila irregolare di denti macchiati. E subito dopo aver aperto la bocca aveva sentito qualcosa di viscido e affilato e tagliente intrufolarglisi dentro. Poi si era sentito quasi sciogliere e aveva assistito a un breve e vomitevole spettacolo.
Il vecchio si sentiva vicino alla morte, dentro, da parecchi anni, ormai. E adesso era morto, da dentro.

L’uomo, che adesso era dentro la pelle di un barbone, si stiracchiò nel suo nuovo “abito”. Osservò, nell’asfalto bagnato, il vecchio abito, pelle umana, in un involucro di abiti invernali, afflosciati.
Non si era mai saputo spiegare come riuscisse a fare tutto ciò. L’unica cosa che sapeva era che si trattava di qualcosa davvero utile. Non c’aveva perso molto tempo a capire come sfruttare quel potere. O quello che era.
In lontananza udì riecheggiare le sirene della polizia. Non riuscì a reprimere una risata. Gettò i suoi resti nel bidone e lasciò il vicoletto, lanciando un’occhiata al murales pornografico.

Mentre tornava nella tana più vicina, fece un rapido calcolo. Gli sarebbero bastati altri due cambi d’abito, al massimo. La valigetta odierna conteneva quindicimila bigliettoni. Assieme alle tre rapine precedenti raggiungeva quasi un milione. Sì, un altro paio di banche e un altro paio di abiti. Sarebbe andato tutto a meraviglia.
Sorrise, pregustando un caldo e profumato bagno, mentre benediva barboni, disagiati, poveri, folli… tutti gli emarginati, i reietti. O, come li definiva una società falsamente perbenista, i “meno fortunati”.
Fortuna che, al contrario di quanto voleva far credere la società, nessuno badasse alla loro assenza!


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