di Antonio Calzone
Era una bellissima mattinata di sole di inizio giugno. Avevo deciso di fare un giro al Marché aux Puces de Saint-Ouen, senza niente di particolare da comperare, ma con la voglia di trovare qualcosa di caratteristico per il mio studio.
Quell’astuccio era lì che mi osservava. Vi è mai capitato di vedere qualcosa in una vetrina, che ne so, un capo d’abbigliamento, un orologio o un paio di scarpe, e avere la sensazione che non siete voi a guardare lui ma il contrario? Non avete mai sentito quest’impulso irrazionale ed irrefrenabile ad acquistare proprio quel capo d’abbigliamento, quell’orologio, quel paio di scarpe?
A me capitò con quella valigetta da pittore. Non aveva nulla di particolare, se non il fatto che appariva molto pratica e comoda. Era una specie di borsa rettangolare in pelle, con fibbie e maniglia, che conteneva una serie di tubetti di colori ad olio, alcuni pennelli e una tavolozza evidentemente usata. Del resto era sul banco di un rigattiere e non si poteva pretendere che fosse nuova. Eppure, forse proprio per questo aveva un fascino particolare e mi attirava. Provai ad immaginare a chi potesse essere appartenuta, a quali dipinti avesse contribuito a creare. Era un oggetto che stimolava molto la mia fantasia, e per un artista la fantasia è tutto. Anche per un imbrattatele come me.
Tirai un po’ sul prezzo, tanto per non dare al mercante l’impressione di voler acquistare a tutti i costi quell’oggetto, altrimenti se ne sarebbe sicuramente approfittato. Rigirandomelo tra le mani, notai alcune lettere scritte sul retro della valigetta: M. Utr., forse le iniziali del proprietario originale, non saprei.
Il rigattiere mi disse che la valigetta andava insieme ad un quadro e me lo consegnò senza troppe cerimonie. Rappresentava l’interno di un’ala del Musée du Louvre, mirabilmente riprodotta fin nei più minuti particolari. Non c’erano persone, soltanto quadri alle pareti.
Forse vi sembrerà un soggetto arido, ma vi assicuro che non lo era. Le opere alle pareti erano riprodotte magistralmente e si poteva passare ore ad osservarle.
Lo appesi sulla parete del mio studio, in un posto in cui potevo osservarlo anche mentre dipingevo.
Mi chiamo Auguste e come avrete già capito faccio il pittore. Una volta ritraevo la mia amata città, Parigi, scegliendone come soggetti tutti i luoghi più caratteristici. Ho dipinto scorci della Senna, con i suoi Bateau Mouche e i suoi molti ponti. Ho realizzato tele con la Tour Eiffel, ritratta sia di notte che di giorno. E poi Montmartre, Notre Dame, le Sacre Coeur, le Moulin Rouge, l’Arc de Triomphe… insomma, ogni possibile scorcio di questa meravigliosa città è stata per me fonte d’ispirazione per soggetti da ritrarre più e più volte. Purtroppo, non sono mai stato bravo come avrei voluto. Almeno finché acquistai quella valigetta al mercato.
Compresi subito che non si trattava di un oggetto ordinario, non appena giunsi a casa. Avevo intenzione di completare una tela che tenevo in sospeso da molto tempo. Si trattava di un progetto ambizioso, per uno come me: una veduta aerea di Parigi con la Tour in primo piano e i giardini dello Champ de Mars sullo sfondo, il tutto su una tela delle ragguardevoli dimensioni di un paio di metri di larghezza per un metro e venti di altezza. Avevo abbozzato qualcosa, ma il disegno di base non mi soddisfaceva e quindi era rimasta così, solo uno scarabocchio informe.
Aprii la valigetta per controllarne meglio il contenuto, ma ero sicuro del fatto che ciò che conteneva fosse vecchio e inservibile e che dovessi sostituirlo con i miei arnesi. Eppure, appena presi in mano quei pennelli e quei colori, fui assalito da una specie di frenesia. Mi buttai a capofitto nella pittura e meno di due ore dopo, sudato ed affannato, stavo contemplando il quadro finito. Ed era un capolavoro.
Avevo lavorato freneticamente e avrei dovuto sentirmi esausto, ma ero invece pervaso da un’energia interminabile, che però mi abbandonò immediatamente non appena riposi gli attrezzi nella loro valigetta.
Non credevo ai miei occhi: non ero mai stato in grado di dipingere tanto bene in vita mia. Osservavo quell’opera e vi scoprivo una serie infinita di particolari che stupivano me per primo. “Sono stato io a fare questo?”, mi domandai incredulo. Poi. Stanco, me ne andai a dormire, non prima, però, di aver dato un’occhiata al quadro donatomi dal rigattiere. Strano, avevo l’impressione che il quadro mi osservasse. Mi sembrava che qualcosa fosse mutato nell’immagine, ma ovviamente era frutto della mia immaginazione. E della stanchezza.
Fu l’inizio di una trasformazione nella mia vita e nella mia arte. Io non ho mai creduto nella possibilità di diventare un pittore quotato. Sapevo perfettamente quali fossero i miei limiti, ma ora le cose sembravano aver assunto una piega decisamente diversa. Smisi di dipingere per i turisti e presi a farlo per me stesso. E la cosa strana era che quei colori sembravano non consumarsi mai. Con quei pochi tubetti, dipinsi decine di tele. Ma ogni giorno ero sempre più agitato a causa del quadro alla parete. Qualcosa mi sembrava mutare, in quell’immagine, col passare del tempo. Non capivo cosa fosse, all’inizio. Era solo suggestione credevo. Poi lo notai. Persone. Dal fondo della sala, in lontananza, si notava un gruppetto di persone in avvicinamento che prima, potrei giurarlo, non c’erano. A guardarle da vicino, sembravano immobili, ma se si osservava il quadro a distanza di ore, si notava chiaramente che quelle figure si erano avvicinate un pochino. Questa cosa mi angosciava parecchio.
Ero comunque molto preso dalla mia nuova capacità e passavo intere giornate a dipingere, nel mio studio. Giorno dopo giorno le tele si accumulavano ma io non avevo nessuna intenzione di venderle o di partecipare a una mostra, quale che fosse.
Erano un uomo e una donna. Stavano davanti agli altri del gruppetto, ora si vedevano chiaramente, ed osservavano i quadri alle pareti del museo. Non riuscivo a spiegarmi questo evento che aveva del soprannaturale. Era un quadro a tutti gli effetti: potevo sentire la consistenza della pittura sotto i polpastrelli, se passavo le dita sulla tela, eppure le figure si muovevano. Poco alla volta, ma lo facevano, non c’erano dubbi.
Passai un intero pomeriggio a fissare la tela per scorgere anche la più piccola trasformazione, ma per quanto io ni sforzassi, non vidi nulla. Però, la mattina dopo la coppia di giovani era più vicina, quasi in primo piano, adesso. Cominciai a fare l’abitudine all’idea, così come mi ero abituato a vedere capolavori prendere forma sotto le mie mani mentre adoperavo quei pennelli e quei colori che ormai ritenevo pervasi da un potere magico.
Dipingere era sempre stata la mia passione, ma adesso era diventata la mia ossessione. Certi giorni mi scordavo persino di mangiare, per dare vita ai miei capolavori. Ora la coppia di giovani guardava proprio me.
«Questo ti piace, Jules?», disse la ragazza bionda indicando il quadro di un artista che non conosceva ma che trovava delizioso.
«È molto bello, in effetti», rispose lui, mentre le stringeva la mano. Erano fidanzati da meno di un anno ed erano innamoratissimi.
«Non ho mai sentito di questo pittore. Non me ne intendo ma dev’essere un iperrealista. Tu che ne pensi, Nadine?»
La ragazza si sporse un po’ di più verso la tela. Era davvero bello, secondo lei. C’era qualcosa di veramente speciale, quasi ipnotico in quel quadro. Forse era anche l’effetto di trovarsi nel Louvre. Voleva venirci da tanto tempo e finalmente con Jules aveva trovato l’occasione giusta.
«Si vedono proprio tutti i particolari. Certo che bisogna realmente essere bravi per dipingere così.»
«Già. Lo studio è reso alla perfezione e il pittore…»
Il ragazzo aveva cominciato la frase, ma fu la sua fidanzata a completarla.
«…il pittore sembra guardarti davvero.»
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