02/06/20

I DECANI: Ritornando all'Umanesimo e al Rinascimento Mese di Giugno: VIRTUTI S.A.I - VIRTUTI SEMPER ADVERSATUR IGNORANTIA- VIRTUS COMBUSTA/ VIRTUS DESERTA


                                                                            
 
                                                                 
- segno zodiacale e affreschi di Ercole de Roberti "maestro d'Ercole", Palazzo Schifanoia di Ferrara -

La questione del libero arbitrio e della predestinazione animò il dibattito teologico – ed esistenziale - della seconda metà del XIII secolo. Tale riflessione, decisiva per qualità e importanza per la successiva Rinascenza, oppose i seguaci di Tommaso D’Aquino, che privilegiavano la libertà dell'uomo, ai lettori e agli ammiratori di Agostino d'Ippona, che invece credevano in una forma di predestinazione provvidenziale divina.  
Lungi dall'essere circoscritta alla sola controversia teologica, durante il XV e il XVI secolo, la fiducia in se stesso dell'uomo rinascimentale e il suo precipuo interesse per le azioni controllate dalla volontà umana, s’innestò nella medievale visione teocratica della realtà, scardinandola: gli eventi e le decisioni umane cessarono di essere frutto della Divina Provvidenza o del determinismo astrologico; la nozione di libertà di scelta e di azione penetrò profondamente nella percezione dell'uomo e del mondo e diede forma agli ideali di etica civile, praticità, individualismo, competitività esaltazione della vita attiva, propri della società artigiana e mercantile che costituiva la crescente società umanistica e rinascimentale. Questa nuova visione del mondo generò una grande euforia per la sensazione di libertà, e un immenso entusiasmo per le imprese.
Sorse un ideale sconosciuto fino a quel momento: l'ideale incarnato da quegli uomini che Machiavelli definì "nuovi"; persone il cui ruolo nella società non era marcato in modo indelebile dalla nascita o dal peccato originale (che necessita della grazia divina per essere rimesso), ma che erano responsabili del proprio destino e che grazie alle proprie capacità e azioni potevano migliorare il proprio stato, in consonanza con le loro virtù.
Che il Decano porti la sintesi fondamentale del "Principe" di Niccolò Machiavelli:



“Tuttavia, affinché il nostro libero arbitrio non sia completamente annullato, penso che possa esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle nostre azioni e che lasci governare a noi l’altra metà, o quasi. E paragono la fortuna ad uno di quei fiumi rovinosi, che, quando si ingrossano e rompono gli argini, allagano la pianura, sradicano gli alberi e distruggono gli edifici, levano da questa parte il terreno e lo pongono dall’altra. Ciascuno fugge davanti ad essi, ognuno cede al loro impeto, senza potervi in alcun modo resistere. E, benché quei fiumi siano fatti così, per natura violenti, nulla impedisce che gli uomini, quando i tempi sono tranquilli, possano prendere provvedimenti con ripari e con argini, in modo che essi, quando crescono, sfoghino la furia delle loro acque per un canale o comunque fare in modo che il loro impeto non sia così dannoso e così violento.   
In modo simile succede alla fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non c’è alcuna virtù impegnata consapevolmente a resisterle; e rivolge il suo impeto proprio lì dove essa sa che non sono stati costruiti gli argini ed i ripari per contenerla. E, se prendete in considerazione l’Italia, vedrete che essa è una campagna senza argini e senz’alcun riparo; perché, se essa fosse difesa da un’adeguata virtù , come la Germania, la Spagna e la Francia, questa piena non avrebbe provocato i grandi mutamenti che ci sono stati oppure non sarebbe nemmeno avvenuta. E voglio che basti aver detto questo per quanto riguarda la possibilità di opporsi alla fortuna in generale.”    

Nel XV secolo Giannozzo Manetti contribuì a fissare le basi teoriche di questo cambio epocale. A cavallo tra il 1452 e il 1453, infatti, compose il “De dignitate et excellentia hominis libri IV”, in risposta a uno scritto di carattere conservatore, il "De miseria humanae", opera di papa Innocenzo III”. In esso Manetti tracciò un’ immagine ottimista dell'uomo, con la quale pretendeva di riscattare la sua piena dignità. Secondo l'umanista fiorentino la grandezza dell'uomo risiedeva nell'attività creatrice che egli rivestiva nella costruzione della città terrena.
La lezione di Manetti fu seguita da Giovanni Pico della Mirandola che, nel 1486, scrisse l'”Oratio de hominis dignitate”, considerato il manifesto del Rinascimento, un testo in difesa della dignità e della libertà dell'essere umano, fondate sul e rette dal libero arbitrio. Il Discorso si apriva con una favola in cui Dio, secondo una reinterpretazione del Timeo di Platone, una volta creati tutti gli esseri seguendo gli archetipi contemplabili nel mondo celeste, indugiava perplesso: non restavano archetipi per plasmare una nuova creatura, né tesori da donare a un nuovo figlio, né un luogo dove questi potesse ammirare l’universo; tutti erano già occupati, tutti erano già stati distribuiti. Prima che comparisse l'uomo, il mondo era pieno, la natura finita e nulla le mancava: le leggi naturali erano state predisposte, gli astri giravano nelle loro orbite e ogni cosa obbediva alla sua propria natura. Decise quindi l'ottimo artefice che all'uomo, a "cui non poteva dare nulla di proprio, fosse comune tutto quanto era proprio dei singoli". Prese l'uomo, creatura di immagine indefinita, e postolo nel centro del mondo così gli parlò:



“Non ti abbiamo dato, o Adamo, né una sede determinata, né aspetto peculiare, né alcuna funzione speciale, affinché tu possa ottenere e possedere secondo il tuo desiderio e consiglio quella sede, quell’aspetto, quella funzione che ti sarai scelto. La natura definita degli altri è costretta entro leggi da noi prescritte. Tu, non costretto da alcuna angustia, la definirai secondo il tuo arbitrio, cui ti ho affidato. Ti ho posto nel mezzo del mondo, perché di là potessi, guardandoti intorno, scorgere meglio tutto ciò che è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu possa tranquillamente darti la forma che vuoi, come libero e sovrano scultore e artefice di te stesso. Potrai degenerare negli esseri inferiori, i bruti; potrai rigenerarti, se lo vorrai, nello cose superiori, divine“.
([PICO DELLA MIRANDOLA 1496, c.132r.Traduzione di Pier Cesare Bori).
Pico della Mirandola affermava, in sostanza, che Dio aveva assegnato all'uomo una natura finita ma indeterminata, in quanto in lui aveva riposto "semi d'ogni specie e germi d'ogni vita": sia la natura bestiale mossa da pulsioni istintive, sia l'intelligenza angelica illuminata dalla ragione. L'uomo forgiava il proprio destino secondo la propria volontà e la sua libertà era massima, poiché non era né animale né angelo, ma poteva essere l'uno o l'altro dipendendo "dai semi" che in lui decideva di coltivare: "O somma liberalità di Dio padre, o somma e mirabile felicità dell’uomo cui è dato di avere quanto desidera, di essere ciò che vuole!".
La facoltà di scegliere cosa divenire faceva dell'uomo la più dignitosa e la più felice fra tutte le creature, anche più degli angeli; grazie a questa prerogativa l'uomo poteva trascendere il mondo naturale (ovvero della necessità), oggetto di contemplazione, e avvicinarsi al regno divino (ovvero della libertà), fatto di possibilità; la trascendenza di cui tratta Pico della Mirandola non era rivolta a un mondo soprannaturale distinto dal creato, ma era terrena e consisteva nella capacità dell'uomo di scegliere e trasformare.
Tale mirabile filosofia rinascimentale è sintetizzata nel sublime quadro dei fratelli Pollaiolo, il "Martirio di San Sebastiano", culmine iconografico della Rinascenza: