di Rubrus
«Mi domandavo quando si sarebbero fatti vivi».
Davide si terse il sudore e si girò verso Pietro che
guardava in alto, verso la sommità della buca.
Pietro accennò con il capo a tre sagome nere che si
stagliavano in controluce, in prossimità dell’orlo.
«Pensionati» proseguì. «Non importa dove, non importa come,
non importa quando. Tu manda degli operai a fare un lavoro di qualunque genere
e presto o tardi arriva il gruppetto di pensionati che si mette a guardare».
Davide strinse gli occhi, ammiccando. «Dovresti far pagare
il biglietto» disse.
Pietro prese la vanga e ricominciò a scavare. «Non c’è
niente da fare» riprese, come se Davide non avesse aperto bocca. «I cantieri li attirano come mosche al miele.
Anche una miseria di cantiere come questo. Non gl’importa. Si piazzano lì e ti
guardano».
Davide annuì e riprese a sua volta a scavare. Era vero. Lavorava
come manovale da poco tempo, ma quel poco gli era sufficiente per sapere che
Pietro aveva ragione. Non c’era programma TV, partita a carte, discussione
politica, gara di ballo liscio che tenesse. L’assessorato poteva organizzare
tutte le iniziative per anziani che gli pareva. Un cantiere era sempre un
cantiere, punto e basta.
«Mi danno ai nervi, se proprio lo vuoi sapere» continuò
Pietro. Davide sapeva che a Pietro non importava se lui voleva saperlo o no:
glie lo avrebbe detto lo stesso.
«Sono sicuro che nessuno di quelli là ha mai preso una pala
in mano e che non sanno un accidenti di edilizia, ingegneria o altro. Magari
prima lavoravano alle poste o in banca e delle case sapevano solo quello che
serve per abitarci, quindi che cosa glie ne dovrebbe fregare di un disgraziato
che si spacca la schiena in fondo ad una buca?».
Davide notò che Pietro aveva parlato di “un” disgraziato e
non c’era bisogno di chiedergli a chi si riferisse.
«Niente» proseguì l’altro «Niente di niente. Eppure eccoli
là con l’aria di sputare sentenze su quello che stai facendo».
Davide alzò ancora lo sguardo. In fondo alla buca faceva
caldo, un caldo umido, odoroso di terra, cemento ed acqua stagnante, ma anche
là fuori, senza un filo d’ombra, non si doveva scherzare, eppure i tre avevano
l’aria di volere rimanere lì tutto il giorno. Ora, forse perché una nuvola
aveva oscurato per un attimo il sole, si potevano distinguere alcuni
particolari: uno aveva un cappello di paglia che doveva aver rubato a un museo
(Davide ebbe una fugace visione di certi filmati del Ventennio), dell’altro si
potevano distinguere due gambette secche, tenute all’ombra da una gran pancia,
che finivano (Dio ce ne scampi e liberi) in calzini bianchi dentro scarpe di
cuoio; il terzo, del tutto in ombra, aveva un bastone.
No, non avevano l’aria di chi voleva pontificare sul lavoro
altrui, però era vero: a osservarli a lungo ci si sentiva un po’ a disagio,
come se...
«…dico io che bisogno c’è di cablare questo schifo di paese –
aveva ripreso Pietro – Nessuno, no? ti pare che quelli abbiano bisogno di
essere cablati? E invece no. Ci tocca buttar giù una casa perché ci devono
costruire Dio solo sa cosa e poi ci tocca di finire il lavoro a mani, perché,
ovviamente, sotto ci passa di tutto: fognature, condotte dell’acqua, del gas,
della luce e…» Pietro terminò la frase con una bestemmia. Davide era
sinceramente stupito del numero di bestemmie che Pietro conosceva. «Cosa c’è? »
chiese, lieto di avere una scusa poter interrompere il lavoro.
«Un dannato groviglio di tubi dell’acqua, ecco cosa c’è»
rispose Pietro «se qui tagliamo qualcosa rischiamo di lasciare mezzo paese a
secco».
«Allora abbiamo fatto bene a proseguire a mani» disse Davide.
Pietro rispose con una manata contro uno dei pilastri che
costituivano le fondazioni della casa abbattuta e che, ora, spuntava dal
terreno come l’osso dissepolto di un dinosauro. Il pilastro si lamentò con uno
schiocco sonoro che echeggiò per la buca.
«Bene un corno» disse Pietro «Ma quand’è che voi figli di
papà capirete qualcosa?» (in un momento di debolezza, Davide aveva rivelato a
Pietro di avere un diploma in lettere classiche e questo l’aveva trasformato
all’istante in un figlio di papà). «Ci pagano a cottimo, ricordi? Se non
possiamo usare l’escavatore finiamo più tardi e se finiamo più tardi vuol dire
che tu vieni pagato meno».
Davide pensò che c’era un errore nel sillogismo di Pietro o,
per lo meno, un errore nelle concordanze, ma lo tenne per sé.
«Scommetto che l’intera baracca è abusiva. Qui bisogna
chiamare il geometra e …» Un’altra bestemmia. Meno colorita della prima, ma
comunque notevole. «Il cellulare non prende. Per forza. In questo cavolo di
buca in questo buco di paese…» Pietro si diresse verso la scala a pioli che lo
riportava a livello del suolo, quattro metri più sopra. «Approfittane per
pranzare» disse mentre si arrampicava. «Io vado a parlare col geometra».
E per questo ti ci
vuole tutta la pausa pranzo? Si trattenne dal dire Davide, ma l’altro aveva
già raggiunto la superficie e ora era nulla più che una sagoma, proprio come i
tre pensionati che se ne stavano ancora lì, immobili, a godersi lo spettacolo.
Ben presto scomparve alla vista.
Davide imprecò e gettò via la pala.
Ricapitoliamo si
disse. Sono in una buca di circa quattro
metri di profondità, in corrispondenza delle cantine di una vecchia casa che
abbiamo appena buttato giù. Appena sotto la superficie di quello che doveva
essere lo scantinato corrono dei tubi dell’acqua che non si sa da dove vengono
e neppure dove vadano. Se sono riuscito a capire qualcosa di questo lavoro, qualora
tagliassimo i tubi – a parte il rischio di fare un bagno inaspettato –
lasceremmo senz’acqua le case vicine. La ditta non vuole rogne, quindi si deve
andare in comune, cercare di capire quale potrebbe essere il percorso delle
condotte, pagare una tangente all’assessore perché ci autorizzi immediatamente
– e dico immediatamente – a proseguire i lavori e un’altra tangente al sindaco perché
autorizzi, previa emissione dell’ordinanza, debitamente affissa, la sospensione
dell’erogazione. A parte questo il mio compagno di lavoro è un bastardo e io
faccio una vita del cavolo.
Impugnò il cesto del pranzo e si diresse verso la scala a
pioli. Si fermò.
Mentre erano intenti nelle loro scoperte, il sole si era
girato e ora, dentro la buca, c’era un ombra quasi piacevole. Alzando lo
sguardo fu abbagliato dalla luce feroce di luglio che sembrava arroventare ogni
cosa tranne i tre pensionati che, imperterriti, guardavano verso il basso.
Facendosi schermo con una mano, li salutò appena con l’altra, che ancora
reggeva il cestino. Calzini Bianchi rispose facendo educatamente «ciao ciao».
Beh, gente, il primo
tempo è finito, potrete tornare nel pomeriggio per seguire le Nuove,
Mirabolanti Avventure dell’Intrepido Scavatore. E pensare che sognavo di fare
l’archeologo.
No, non era una buona idea mangiare all’ombra del camion
arroventato.
Si allontanò dalla scala e si sedette nell’angolo più fresco
della buca. Anche se il sole le aveva sferzate per tutta la mattina, le pareti
lisce delle fondamenta erano abbastanza fresche e, ora che erano all’ombra,
appoggiarvisi senza dover muovere un muscolo avrebbe potuto essere quasi
piacevole.
Prese il primo panino e allungò le gambe.
Già pensò dando il
primo morso. Avrebbe potuto mangiare lì sotto e magari schiacciare anche un
sonnellino al fresco perché aveva la netta impressione che Pietro non sarebbe
tornato tanto presto.
Addentò il pasto (pane salame e formaggio) ripromettendosi
di mangiare con calma e, soprattutto, di adottare, dal prossimo pasto in poi,
una dieta più sana. Come sempre, in meno di tre minuti era già passato al
secondo panino. Mentre si costringeva a prendere una pausa (ma, a costringerlo,
era, in realtà e come sempre, il groppo di cibo mal masticato che si era creato
all’inizio dell’esofago) alzò di nuovo lo sguardo.
Cribbio. Erano
ancora lì.
Appoggiò su una gamba quel che rimaneva del panino e guardò
meglio. Non soltanto non si erano mossi, ma, accortosi che li stava osservando,
Cappello di Paglia stava agitando qualcosa.
Davide non ne aveva visti molti, finora, nella vita reale.
Al massimo nelle osterie e nei ristoranti tipici o aspiranti tali.
Era un fiasco.
«Ehilà» stava urlando Cappello di Paglia.
Mentre si alzava e si dirigeva verso la scala, Davide pensò
distrattamente che Cappello di Paglia non aveva bisogno di urlare: in linea
d’aria distavano circa quattro metri… eppure ebbe anche l’assoluta certezza
che, se Cappello di Paglia non avesse urlato, lui non l’avrebbe sentito. Anzi,
la voce sembrava venire da un posto incredibilmente lontano e non solo nello
spazio, come se loro due si trovassero da due opposti lati della realtà,
separati da un diaframma che, solo per qualche momento, si era miracolosamente
sollevato.
La sensazione svanì non appena Davide mise piede sulla
superficie. Li poteva vedere bene, ora: Cappello di Paglia in calzoni color
sabbia, camicia immacolata e bretelle, Calzini Bianchi con la pelata che
luccicava al sole come una cupola cromata, Bastone immobile e rugoso come una
sfinge.
«Gradisce un goccio?» chiese Cappello di Paglia. La voce era
un po’ querula e vagamente metallica. A Davide vennero in mente, ancora una
volta, radio Balilla e marcette patriottiche. «Gaspare si sente in colpa»
intervenne Calzini Bianchi. «È colpa di suo nipote se vi trovate a faticare con
questo caldo. Suo nipote è il sindaco». Cappello di Paglia allungò il fiasco
verso Davide. Era appannato e coperto di goccioline, come se lo avessero appena
tolto da una cascata. Davide lo prese.
Spettatori affacciati
alla fossa dei leoni, ecco che cosa mi ricordano. Era un pensiero scortese,
ma trovandoseli lì davanti, non più solo tre sagome in controluce, poteva
scorgere gli occhietti dei due più vicini, che luccicavano vogliosi come
piccoli cuculi affamati. Il terzo, Bastone, era troppo lontano. Si accorse di
non avere un bicchiere. Nei cantieri può
sempre succedere qualcosa. È per questo che guardano. Sì, certo, dicono che gli
piace veder lavorare il prossimo, loro che ormai sono inattivi, ma è
l’incidente che aspettano. Un arto che si spezza, un carico che si stacca,
qualcosa che esplode, una lama che taglia un dito, due operai che si pigliano a
botte…
«Può tenerselo, se vuole« disse Bastone. Cercò di scorgerne
l’espressione, tra l’intrico di rughe che ne scolpivano il volto, ma senza
riuscirci. Era come se fosse sempre in ombra, anche se non c’era niente che
potesse gettare ombra, lì intorno.
Oppure è come diceva
Pietro. Non c’è bisogno di lavori, in realtà. È solo il sindaco che li
organizza perché questi vecchi abbiano qualcosa da guardare. O chissà cos’altro
c’è sotto.
Davide sgranò ancora gli occhi nel sole, tentando di
scorgere l’espressione di Bastone. Inutile. Dopo la semioscurità della buca era
come se fosse ancora abbagliato. Era meglio scendere perché (Nyoghta) là sotto sarebbe stato molto
più fresco. Più tranquillo e più fresco.
«Grazie» riuscì solo a dire, agitando il fiasco a mo’ di
saluto, poi si voltò e riprese a scendere le scale.
Era sicuro che i tre lo stessero guardando, anche dopo che
era scomparso dentro la buca.
A svegliarlo fu il freddo. Non la frescura o il fresco. Il
freddo. Si accorse di avere la pelle d’oca in tutto il corpo.
Cribbio imprecò ma quanto ho dormito?.
Quasi tutta la buca era invasa dalle ombre, ormai, ben più
fitte e persistenti di quelle del mezzogiorno.
Si alzò, accorgendosi che, in mano, reggeva ancora il
fiasco. Era mezzo vuoto. Non l’ho bevuto
tutto pensò si dev’essere rovesciato.
Non posso averlo bevuto tutto. Non mi
ricordo di averlo fatto. Diamine, non mi ricordo neppure se è bianco o rosso. Rovesciò
per terra quello che restava. Sembrava bianco e, incredibilmente, sembrava
ancora fresco. Ma che fine ha fatto
Pietro? Sollevò lo sguardo. Anche se c’era ancora luce, il cielo sopra la
buca sembrava già incupirsi da un lato, come se il tramonto fosse vicino.
Rimpianse di non avere con sé un orologio: ne aveva rotti
già due in pochi mesi, mentre s’impratichiva del lavoro, così aveva deciso di
non indossarne. Ora come ora, però, si rammaricava di non aver voluto correre
il rischio di romperne un terzo.
Si diresse verso la scala, accorgendosi di non barcollare. Non sono ubriaco – pensò – Pietro potrà accusarmi di dormire, ma non di
bere, ma forse non gli conviene, perché qualcuno potrebbe chiedere che cosa ha
fatto lui durante il pomeriggio.
Al momento, però, non era Pietro il pensiero più importante.
Per assurdo che fosse, era un altro, più potente, per quanto inespresso. Devo uscire di qui. Al più presto. Quando
sarò fuori potrò anche pensare a che cosa dire a Pietro e a che cosa
chiedergli. Potrò anche pensare ai tre vecchi e a restituire loro il fiasco,
potrò preoccuparmi di tutto quello che vorrò, ma adesso devo uscire di qui
perché… (Nyoghta).
Era già a metà della scala quando lo vide.
Tutto intorno a lui era in penombra, ma il bagliore fu così
forte da abbagliarlo e costringerlo a socchiudere gli occhi.
Qualcosa luccicava laggiù in fondo, nell’unico angolo della
buca ancora illuminato dal sole.
Davide ridiscese le scale.
Era nel punto opposto a quello dove si trovava la scala e
gli ultimi raggi lo colpivano con tale violenza che, mentre si avvicinava, Davide
dovette farsi schermo con una mano.
Un gioiello pensò.
Per le ciabatte di Tuthankamon. Un
gioiello. In effetti, mentre si avvicinava, l’oggetto sfolgorante e di
forma semicircolare che affiorava dal terreno fangoso della buca avrebbe potuto
essere benissimo un bracciale, ma poi, mentre Davide si faceva ancora più
vicino e il riflesso scemava d’intensità (e una parte del suo cervello gli
suggeriva che il riverbero non poteva essere così forte; anche considerando la semioscurità della buca nessuna
rifrazione avrebbe dovuto apparire così intensa: era come se qualcuno
l’illuminasse con un dannato faro o come se la … cosa brillasse di luce
propria) l’oggetto rivelò un’altra natura.
Un anello di metallo.
Ottone, probabilmente pensò Davide
accosciandosi.
Allungò la mano e lo toccò. Era indiscutibilmente un anello
di metallo. Fece scorrere le dita sulla superficie liscia e fredda. Quel
semplice gesto fece tacere un’altra voce che gli diceva che nessun metallo
colpito dal sole in quel modo avrebbe dovuto rimanere freddo e, soprattutto,
nulla che fosse rimasto sepolto nel fango per così tanto tempo avrebbe potuto…
no, avrebbe dovuto essere così lucido.
La superficie era piacevole al tocco, quasi invitante e,
continuando a toccarla, Davide liberò la parte inferiore dalla terra in cui era
affondata, fino a rivelarne la forma intera e a scoprire il supporto in ferro
brunito cui era attaccato.
Una maniglia. Che mi
venga un colpo. È la maniglia di una botola. Alzò la testa verso l’alto
come per comunicare al mondo la sua scoperta ma, sopra di lui, c’era solo il
cielo vuoto che andava pian piano oscurandosi.
Si alzò lentamente, quasi con riverenza, osservando la
maniglia di metallo dorato, la serratura di ferro scuro e le tavole di legno
che scomparivano nel terreno.
«Una cantina segreta» mormorò. «Un secondo scantinato
costruito sotto il primo, chissà quando e chissà per cosa».
Corse verso la scala, afferrò una pala che giaceva lì
vicino, scacciò l’impulso di tornare alla superficie (che gli era tornato in
testa appena persa di vista la botola, ma che percepiva ora come un ronzio
debole e fastidioso, simile a quello di una mosca già mezzo ammazzata da
un’energica spruzzata d’insetticida) e cominciò a togliere gli strati di terra,
fango e ghiaia che ancora coprivano le assi. In breve, l’intera botola venne
alla luce.
Beh, ecco qui un
doppio scantinato. Abusivo senz’altro. Magari durante la guerra ci nascondevano
le provviste per il mercato nero. Oppure i partigiani. O i disertori.
Lasciò cadere a terra la pala. Ora il sole illuminava
l’intera botola e quello strano effetto ottico che l’aveva abbagliato era del
tutto scomparso. Davide poteva vedere benissimo che, anche se il metallo era
del tutto privo di ruggine, le assi erano completamente tarlate.
Basta uno strattone e
qui viene via tutto pensò e, di colpo, rise forte. Le pareti della buca gli
restituirono l’eco, un po’ distorta, come se un’invisibile corte di pazzi
sghignazzasse con lui.
L’archeologo. Da
ragazzo sognavo di fare l’archeologo e, che mi venga un accidente, adesso mi
capita sul serio.
Fu preso da (Nyoghta)
un’improvvisa e irresistibile euforia e, prima di rendersene conto, aveva
afferrato la maniglia con tutt’e due le mani e tirava.
Non dovette sforzarsi molto.
Il legno si rivelò più marcio del previsto e, in
un’esplosione di polvere e schegge, Davide si trovò a gambe all’aria, reggendo
in mano la maniglia.
Ottone concluse,
prima di guardarla un’ultima volta e gettarla a terra.
Si alzò e si diresse verso il foro: un riquadro d’un nero
assoluto da cui uscivano odore di terra, polvere ed acqua stagnante. Si sporse
verso il basso, cercando inutilmente di scorgere qualcosa in quel pezzo di
tenebra solida ai suoi piedi. Con un calcio, spinse un sasso verso la buca e,
per un attimo, ebbe l’assoluta certezza che non avrebbe sentito il tonfo, ma
che il sasso avrebbe continuato a precipitare per l’eternità. Immediatamente,
invece, udì il rumore familiare della pietra che cadeva su altre pietre e
rotolava per poche decine di centimetri.
«Un paio di metri al massimo» calcolò. Giusto. Niente di
straordinario. Solo un secondo livello della cantina, magari ampio pochi metri
cubi e sicuramente del tutto vuoto. Niente che valesse la pena di esplorare.
Nello stesso istante in cui formulava queste deduzioni, si
dirigeva nuovamente verso la scala, afferrava il fiasco che era rimasto
abbandonato a terra, prendeva uno straccio, l’infilava nel collo della
bottiglia, lo accendeva con uno zippo e si dirigeva nuovamente verso la botola,
fischiettando il refrain di Indiana Jones.
Agitò l’improvvisata torcia dentro la botola e, mentre
illuminava un pavimento in terra battuta e un monticello di pietrisco proprio
sotto l’apertura, si sentiva bene.
Sì, per questo era nato. Questo cercava quando, con gli
altri ragazzini, si avventurava nelle fabbriche o nelle case abbandonate o nei
boschetti che crescevano disordinatamente alla periferia della città. Questo
cercava quando si era iscritto al liceo. Questo sognava quando si diceva che
l’essersi improvvisato manovale era un sacrificio necessario per poter
coltivare la sua antica aspirazione: un cappellaccio, una pala, una frusta, e
una X che indicasse il punto dove scavare.
Si calò agilmente dentro l’apertura e, dopo circa mezzo
metro, i suoi piedi si posarono sul mucchio di pietrisco sottostante. Mulinò le
braccia cercando di mantenere l’equilibrio sulla piccola frana, mentre la
fiamma illuminava, in un velocissimo alternarsi di luce ed ombra, le pareti
scabre e nude della stanza, infine si fermò sullo strato di terra battuta e si
guardò intorno.
Era quello che si aspettava: una stanza di circa cinque
metri per sei e alta poco più di due metri, col pavimento in terra e le pareti
e il soffitto in cemento, completamente vuota.
Si guardò intorno, ascoltando solo il crepitare dello
straccio che bruciava e il battito del proprio cuore che rallentava
gradualmente le pulsazioni.
«Bah» disse ad alta voce. «Neanche una bottiglia di quello
buono».
L’eco gli restituì le sue parole… solo che non era la sua
voce.
Era un suono cupo, cavernoso, che sembrava provenire da
distanze inimmaginabili, oltre il buio che si stendeva davanti ai suoi occhi;
un vocione da (Nyoghta) orco affamato
e maligno.
Non dovrebbe essere
così pensò in uno spazio così
ristretto non ci dovrebbe essere
neanche, l’eco. Che dico, neanche il rimbombo.
L’occhio della mente gli fece vedere vaste, tenebrose
caverne, con antri e cunicoli, laghi e fiumi sotterranei, palazzi di
concrezioni, cattedrali di alabastro, intere foreste di stalattiti e
stalagmiti. Un posto dovrebbe avrebbe potuto esserci una montagna d’oro e,
adagiato sopra di essa, un drago in grado di papparsi qualunque esploratore,
completo di frusta e cappellaccio.
Ma era solo una cantina.
Protese il fiasco verso le tenebre, inquietamente
consapevole del fatto che lo straccio, ben presto, sarebbe bruciato del tutto.
Tum.
Una cantina, sì, ma più vasta di quello che gli era sembrato
all’inizio.
L’eco della sua voce doveva avere mosso qualcosa che era
caduto davanti a lui, nel buio.
Mosse qualche passo in avanti, brancolando.
È meglio che esca di
qui.
In effetti era meglio sbrigarsi a uscire. Presto lo straccio
sarebbe bruciato completamente e lui sarebbe rimasto nell’oscurità più
completa. E non era il caso. Anche se, ovviamente, non c’era nulla da temere.
Tum.
Trasalì.
Ancora quel rumore.
Non aveva prodotto un gran sconquasso, scendendo, ma non era
escludere il pericolo di crolli. Come manovale (manovale avventizio gli suggerì nella mente la voce di Pietro)
avrebbe dovuto saperlo.
Anzi, a dirla tutta, forse era stata una vera fesseria
scendere.
La fiamma cominciò a traballare.
D’istinto, Davide prese dalla tasca posteriore dei jeans il
fazzoletto e lo avvicinò a quello che rimaneva dello straccio. Dopo qualche
resistenza – diamine, non era stato mica comprato per quello scopo – il
fazzoletto prese a bruciare.
La nuova fiamma avvampò con vigore e Davide vide che quella
che era davanti a lui, e che aveva creduto una parete, era interrotta a metà da
un riquadro ancora più scuro. Una porta.
La cantina ha due stanze.
Si mosse in avanti, allontanandosi ancora di più dalla
botola alle sue spalle, dalla quale, ormai, non veniva quasi più luce.
Tumtum.
È da là che viene, da
qualche parte là in fondo. Dev’essere solo una goccia che cade. Una dannata
goccia che cade dai tubi dell’acqua. L’eco fa un effetto strano.
Avanzò ancora e, guardando il fazzoletto che bruciava nel
fiasco, ebbe la visione dei vecchi che aspettavano sull’orlo della fossa. Era questo che avrebbero voluto vedere se
avessero potuto. Certo. Avrebbero voluto vedere lui che scavava, che scopriva
la botola e che magari ci cadeva dentro e crepava, come quel bambino in quel
pozzo, tanti anni fa (l’immagine gli si affacciò alla mente anche se Davide era
troppo giovane per aver vissuto la diretta. Ne ricordava gli spezzoni trasmessi e
ritrasmessi anni dopo in TV come a dire che era una cosa malsana vedere un
bambino morire lentamente in diretta e che, lì, lì in quel segno perverso,
poteva già vedersi l’avvicinarsi degl’insani tempi nuovi…..Cribbio, ma perché mi vengono certi pensieri?)
Si fece ancora più avanti. Era un’apertura, non proprio una
porta. Non c’erano segni di cardini e battenti. Era un semplice pertugio
squadrato rozzamente nella pietra, largo ed alto abbastanza da far passare un
uomo purché non fosse troppo in carne.
Tumtumtum. Appena trovo quella dannata condotta che
perde la sigillo con la prima cosa che trovo, fosse anche la camicia. Mi dà
troppo fastidio. Mi sembrano…passi. Ecco che cosa mi sembrano. Dei dannati
passi.
Spinse la rudimentale torcia dentro l’apertura illuminandone
le pareti. Niente di strano. Normali pareti rozzamente tagliate nella roccia,
spesse una trentina di centimetri. Poco oltre, la terra battuta era sostituta
da pietrisco biancastro.
La fossa dei leoni.
L’immagine gli tornò alla mente e Davide la scacciò scuotendo energicamente la
testa. Che diamine. Mi sembra persino di
sentirne la puzza. Ma i leoni non hanno questa puzza. Il loro fetore me lo
ricordo bene dai tempi dello zoo. Questo è diverso. È peggio. È puzza di
marcio. Sì, ci dev’essere qualcosa di marcio qui sotto. Qualcosa che marcisce
nell’acqua. L’acqua che cade dalla condotta e che fa quel rumore che sembrano
passi.
Oltrepassò la soglia. La luce del fazzoletto che bruciava
doveva essersi affievolita perché ora Davide non riusciva a vedere le pareti
della seconda stanza. Gli sembrava di camminare in una cavità molto più grande,
come se si trovasse nella navata d’una cattedrale. E gli sembrava anche di
vedere cose che non esistevano.
Per esempio, una specie di pilastro di forma svasata, una
dozzina di metri davanti a lui, che appariva e scompariva alla luce tremolante
delle fiamme.
Sto sognando –
pensò Davide – ecco cos’è. Un sogno. In
realtà sono ancora le due del pomeriggio e io me no sto stravaccato, mezzo
sbronzo, in un angolo della buca. Tum.
Certo che è un sogno. E questi sono
rumori che vengono dalla piazza sopra di me, ma nell’incubo mi sembrano passi.
Passi di qualcuno che si avvicina. O di qualcosa… ma posso svegliarmi. Sicuro.
L’unica cosa che devo fare è dirmi che devo svegliarmi.
L’immagine però non svaniva. Anzi, sembrava acquisire sempre
più concretezza, come ad irriderlo.
Davide avanzò.
Le suole degli scarponcini crepitavano sulla ghiaia bianca
sotto i suoi piedi e questo suono, in qualche modo, gli dava conforto. Copriva
quell’altro suono (TUM).
Era un leggio.
Il pilastro era in realtà un leggio, rivolto verso
l’entrata.
Davide sollevò il fiasco ardente.
C’era un libro, sopra. Chiuso.
Sulla copertina in cuoio (e una parte del suo cervello,
inascoltata, si domandò con la pelle di quale animale poteva essere fatto quel
cuoio… e se era un’animale) c’era una sola parola. Non era scritta in caratteri
astrusi, indecifrabili, o in geroglifici, e neppure in caratteri gotici o
grondanti sangue, se è per questo. Era scritta in un banale, decifrabilissimo
Times New Roman corpo 48. Non era difficile leggerla, forse perché voleva essere letta.
NYOGHTA.
E, di colpo, ogni sensazione d’irrealtà svanì.
Davide udì il crepitio del suo fazzoletto che finiva di
bruciare, sentì il battito del suo cuore che gli rimbombava nelle orecchie,
percepì il tanfo dell’aria viziata e, sotto, ammorbante, il puzzo marcio di
qualcosa di più velenoso e letale di ogni putridume immaginabile.
TUM.
Il fiasco gli sfuggì di mano e, per un attimo, ebbe una
fugace visione di qualcosa che non lo sorprese affatto. Non era ghiaia a
ricoprire il pavimento. Erano ossa. Colse solo un balenio di ossa parietali,
costole e tibie, ma quello sprazzo di visione fu più che sufficiente. Erano
ossa umane.
TUM TUM TUM TUM
E quelli erano passi.
Passi di qualcosa di enorme e famelico che si stava
avvicinando dalle tenebre tutto intorno a lui.
Si voltò di scatto mentre gli ultimi brandelli del
fazzoletto finivano di bruciare ai suoi piedi. Aveva percorso pochi metri
quando la torcia si spense, lasciandolo nell’oscurità più completa.
Sbatté violentemente contro un angolo dell’ingresso e fu
catapultato all’indietro, sul pavimento coperto di ossa, mentre la bocca gli si
riempiva di sangue, solo vagamente consapevole del varco che si era aperto
nella sua arcata dentaria superiore.
TUMTUTMTUTMTUM
Sputò a terra un incisivo e si rialzò in piedi, tastando
innanzi a sé con le mani. Aggrappandosi allo stipite si precipitò nella prima
cantina, sporgendo il corpo e la vista in avanti, mulinando le braccia e
barcollando nel tentativo di tenere l’equilibrio.
Dalla botola filtrava appena un lucore tenue che scendeva
dal cielo notturno, a malapena visibile nella totale oscurità.
Superò con un balzo i metri che lo separavano dal mucchio di
pietrisco e ci si avventò sopra, quasi soffocato dal puzzo della cosa che
cercava di spingere in qualche modo il proprio corpo immane attraverso
l’apertura alle sue spalle.
Scivolò sul pietrisco, si rialzò e riprese a salire. Per
qualche istante le sue gambe scalciarono a vuoto come nella macabra parodia di
un cartone animato, poi le mani sentirono sotto di sé il terreno familiare
dello scavo superiore.
Urlò senza accorgersene, mentre i muscoli della spalla
destra si stiravano nel proiettarlo fuori e rotolò due o tre volte sul fondo
della buca, come uno stuntman incapace, prima di alzarsi.
Era notte fonda, ormai.
TUMTUTMTUTMTUM
Ricadde un paio di volte sulle ginocchia prima di
raggiungere un equilibrio sufficientemente stabile.
Non dubitò neppure per un istante che la cosa l’avrebbe
inseguito.
Forse la luce lunare era troppo per lei, ma, là sotto, ne
arrivava ben poca e, anche se con fatica, la cosa non l’avrebbe lasciato
andare. Aveva fame.
Corse verso il lato opposto della fossa, là dove avrebbe
dovuto trovarsi la scala, ormai completamente invisibile, e cominciò a tastare
alla cieca, cercandola.
Alle sue spalle udì il rumore della cosa che usciva dalla
botola, un rumore simile a liquame che saliva gorgogliando dal fondo di una
palude, e ne udì il fetore nauseabondo. Lo stomaco gli si rovesciò senza che
per questo smettesse di cercare a tastoni schiaffeggiando la parete della
fossa, là dove avrebbe dovuto esserci la scala.
«Allora un altro giro, eh?».
«Vedete di non approfittarne, intesi?”.
«»Non hai il diritto di lamentarti, Venanzio. Hai perso». Al
cenno di uno dei tre l’oste si avvicinò al tavolo.
«Ancora uno» ordinò Gaspare per tutti sventolando il
cappello di paglia.
«E chi immaginava che riuscisse a salire dalla buca?»
brontolò Venanzio agitandosi sulla sedia troppo piccola per la sua pancia
enorme.
«Era giovane e mica tutti sono grassi come te» lo rimbeccò
l’altro «per fortuna che abbiamo tolto la scala».
«Sì, ma così tuo nipote dovrà inventarsi qualche altro
lavoro da commissionare, o no? Tu cosa ne dici, Aurelio?».
Bastone bevve appena un sorso. «Mmh – disse scuotendo la
testa – per ora gli basterà. Possiamo stare tranquilli fino all’estate
prossima. E, in ogni caso, c’è sempre qualche scavo da fare, da qualche parte».
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Chi sbarca su Rayba si regoli di conseguenza. Qua il nichilismo non c'interessa, grazie.