Glossario: SdA =
Signore degli Anelli
JRRT = John Ronald Reuel Tolkien
Eccomi qua.
Se permettete, comincio da un
aneddoto personale.
Tanti anni fa, parlando del SdA
sentii un tale dire: “Questa storia della religiosità nel SdA mi pare un po’
una frase fatta. Dicono tutti che è intrinseca, ma secondo me tutti i
personaggi del libro si comportano come se fossero atei”.
Ora, io credo che a lui per
ragioni sue questa lettura ateistica dell’opera tolkeniana piacesse, ma la sua
affermazione è vera solo in minima parte.
Secondo me (e anticipando le
conclusioni per chi non avesse voglia di leggersi quanto segue) la religiosità nel SdA e in JRRT in generale
c’è, ma è una religiosità radicalmente antimoderna, come tutta l’opera di
Tolkien, del resto.
Senza dubbio, in JRRT (in tutto JRRT) non c’è traccia né di clero,
né di religione organizzata. A differenza che in tante opere fantasy non
vediamo templi, culti ecc.
C’è anzi un discorso
soteriologico abbastanza diverso dall’impostazione tradizionale cristiana.
Questa ruota attorno a un messia, un cristo l’incontro col quale è l’incontro
con la via per la salvezza.
In JRRT non c’è nulla di tutto
questo.
C’è un discorso soteriologico
perché Frodo and company hanno l’obbiettivo di salvare la Terra di Mezzo, ma la
funzione messianica è esercitata da quattro figure diverse.
- Frodo svolge la funzione
sacrificale. Se lui non votasse la propria vita alla distruzione dell’Anello
nulla sarebbe possibile.
- Aragorn svolge la funzione regale,
di signore, re e guaritore, ma è subordinato a Frodo.
- Gandalf svolge la funzione
sacerdotale. È guida, consigliere e mago (molto più mago che sacerdote).
- Il quarto è Gollum. Se non
fosse per lui la missione fallirebbe all’ultimo secondo. Egli la salva distruggendo
se stesso perché tale è la sua natura, dopo aver perduto il Libero Arbitrio
essendo stato sedotto dall’Anello.
Lo “strumento” che tutte queste
figure usano però non è tanto, come nella tradizione cristiana più ortodossa,
l’essere loro stessi la via per la salvezza (se lo facessero sarebbero molto
più evidenti “versioni” del messia, comunque lo si intenda – e probabilmente
era un ruolo che l’autore esitava a far ricoprire loro). Tutto quello che fanno è vivere al meglio il
tempo che è loro dato (come dice Gandalf a Frodo nelle miniere di Moria).
La salvezza passa (ed è in questo
che JRRT è radicalmente antimoderno e “reazionario”, non in certe supposte
inesistenti affinità col pensiero politico di destra dei suoi tempi) attraverso
il recupero della Tradizione e la Restaurazione delle Autorità che quella
tradizione ha incoronato.
In JRRT (come in Omero) tutto ciò
che è antico è più grande e più nobile di quello che è moderno, nel bene e nel
male. La Storia è tutta una decadenza: da Morgoth a Sauron a Saruman, da
Numenor a Gondor ai Sovrintendenti, ecc.
Il viaggio di Frodo non è mai
solo un viaggio nello spazio, ma è un viaggio nel tempo, un tornare là dove
l’Anello è stato forgiato, dove le antiche leggendarie razze di mostri ed eroi
vivono ancora, dove ci sono troni su cui può tornare a sedere un re, dove si
conserva la memoria delle cose passate (Gran Burrone, Gondor) o esse vivono ancora (Fangorn, Lorien, la stessa Mordor ) ecc.
Ma una volta che la missione
salvifica, con queste peculiarità, è conclusa, che il viaggio è terminato, che
succede? [Qui per inciso sta il vero
unico grande difetto e differenza del film di Jackson rispetto a libro]. Sappiamo
che succedono due cose: Saruman deturpa la Contea e, anche se in parte alla
situazione si porrà rimedio, la ferita rimarrà per sempre, proprio come quella
nelle carni di Frodo e (questo nel film c’è) e un bel po’ dei protagonisti fanno
vela, per sempre, verso le Terre Imperiture, Aman.
Be’, verrebbe da dire, bella
Salvezza del cavolo. Ci viene detto che tutte le Razze Parlanti declinano, gli
Elfi se ne vanno, Gandalf pure... non c’è poi una gran differenza rispetto a
quello che sarebbe successo se Saruman avesse vinto. Sì, non sono morti subito,
non sono stati fatti schiavi, ma rimane comunque un po’ di amaro in bocca.
Come mai questa fine?
Torno alla questione iniziale: il
religioso in Tolkien.
Quel tale che diceva che tutti i
personaggi del SdA sono atei vedeva la questione in termini moderni. Da una
parte l’immanente, da parte il trascendente. Da una parte il naturale,
dall’altra il soprannaturale. Da una parte l’immaginazione, dall’altra la realtà. E così via.
Si tratta di una distinzione
moderna, che ha trovato la sua forma definitiva nell’Illuminismo, ma che in
passato non era per niente così netta
Il mito o la leggenda,
soprattutto il mito e la leggenda raccontati, sono, in JRRT come nelle culture più antiche, la religiosità e la spiritualità. In
fondo la Bibbia è, prima e più che un insieme di norme, la storia – che neppure
conosce la distinzione tra naturale e soprannaturale – del popolo ebraico. I
Vangeli sono la storia della predicazione del Cristo prima che e più che un
insieme di norme. Cambiando per un secondo settore, il diritto romano antico
era mos maiorum, più che insieme di
norme generali ed astratte.
Ecco perché secondo me quel tale
sbagliava: perché vedeva il SdA come una storia in cui si può distinguere
immanente e trascendente invece che come
il racconto di un mito che ignora questa distinzione.
Però Tolkien è uomo del Novecento
e secondo me, anche se gli piacerebbe tanto non esserlo, non può evitarlo.
Ecco perché secondo me tutto il SdA – e credo tutta l’opera
tolkeniana – è il racconto non solo del
mito, ma della Morte del Mito, là dove per “morte” si intende la Separazione del
Mito dalla Storia (e quindi la nascita del mito per come lo intendiamo noi).
Separazioni e distacchi,
indebolimento, sono una costante in tutti i lavori di Tolkien.
Facciamo un excursus partendo dal
Silmarillion, l’opera che secondo l’autore stesso era il fondamento teorico del
suo pensiero (e che non terminò, anche se avrebbe voluto). Numenor, la terra
dei Re degli Uomini (ancora una volta regalità e sacerdozio sono inscindibili)
che in passato aveva costituito l’avamposto umano tra le Terre Imperiture e la
Terra di Mezzo è scomparsa da secoli. Il reame di Valinor, dove dimorano i
Valar e che si trova sul continente di Aman è stata dalla Terra di Mezzo nelle
ere precedenti a quella in cui si svolge il SdA e durante la Terza Era , appunto,
nessuno vi può giungere tranne gli Elfi (si può dire che Frodo e Bilbo
ottengano un Permesso di Soggiorno speciale). Con la fine della Terza Era e
l’inizio della Quarta esse diventano irrimediabilmente irraggiungibili
(soprattutto dagli uomini, nelle note finali al SdA si racconta che si sussurri
che, malgrado tutto, Legolas abbia preso con sé Gimli e abbia disceso l’Anduin
per andare a rivedere Galadriel). Insomma, con la partenza degli ultimi Elfi (e
di Frodo, Gandalf e Bilbo), Mito e Storia si sono separati per sempre.
Come e perché è potuto accadere
questo?.
Credo che si debba tornare al
ruolo del Male, che, ritengo è, per JRRT co-artefice sia della Storia che del
Mito.
Così come Morgoth / Melkor
separando il proprio canto da quello di Eru (ci tornerò) contribuisce alla
creazione di Ea e quindi di Arda pur mirando alla sua distruzione, Sauron crea
l’Anello per dominare / distruggere la Terra di Mezzo e in questo modo crea le
premesse per la propria distruzione.
Fermiamoci un attimo.
Non è strano che, per
diventare più potente, qualcuno riversi parte determinante del proprio spirito
in una cosa indipendente che può, ancora una volta essere separata da lui
(ancora il concetto della separazione) e avere una propria vita indipendente?
Certo che è strano, anzi,
diciamocelo, è una stupidaggine.
Una tale stupidaggine che per
tutto il romanzo l’Anello altro non desidera che tornare al suo padrone, essere
di nuovo una cosa sola con lui [a questo punto mi tocca aprire una lunga
parentesi: mi sono sempre chiesto come Sauron potesse essere stato così stupido
– o così avventato – e mi sono risposto che non poteva fare altrimenti perché
il male è inscindibile dall’assenza di libero arbitrio].
Poiché però il Male reca in sé la
propria stessa distruzione (direi che ciò avviene su un piano addirittura
ontologico) il tentativo fallisce (non sto a riparlare di Gollum).
A questo punto l’esito è
inevitabile. Venuto meno uno dei quattro componenti del mito/storia venuto meno
uno dei componenti del Mito/Storia, dicevo, la conclusione è inevitabile; il
Mito/Storia finisce. Il Mito va da una parte, la Storia dall’altra e addio.
A riprova del fatto che il male è
il componente essenziale della storia si noti che è proprio da esso che il libro
prende il titolo. Se così non fosse, lo
avrebbe chiamato “Le avventure di Frodo” o che so io; JRRT (che ai nomi ci badava
eccome), ha dato alla sua opera il nome dell’antagonista, non quello del protagonista, come a dirci che è Sauron
(col suo anello fatale) il motore di tutto.
A proposito dei Grossipiedi o, per meglio dire, degli hobbit
E gli Hobbit, i nostri
Grossipiedi, in tutto questo, come si pongono?.
Sappiamo che nel Silmarillion,
la base teorica dell’universo
tolkeniano, essi non compaiono. Penso che ciò derivi da due ordini di ragioni.
In primo luogo JRRT voleva creare
una razza immaginaria che corrispondesse alle proprie esigenze narrative e non
a quelle delle tradizioni cui attingeva (ok, elfi, nani, orchi ecc. sono
presentati in una particolare “versione”... ma sono pur sempre quelli delle leggende
antiche).
In secondo luogo credo che avesse
la necessità di creare una razza sconosciuta per evidenziare il fatto che
nessuno l’aveva mai sentita nominare prima ed essa era del tutto nascosta al
vasto mondo – anche se questa esigenza ha forse preso forma gradualmente,
probabilmente assumendo la forma definitiva tra la stesura del “Lo Hobbit” e
del SdA.
Comunque sia, gli Hobbit nulla
hanno a che vedere con le Grandi Storie, le leggende d’ispirazione scandinava o
anglosassone in cui sono catapultati. Per tutta la saga del SdA, Sam, che a
volte sembra avere una sorta di complesso di inferiorità, lo ricorda in
continuazione.
Il ruolo che essi mi paiono
avere, come razza, è quello di giardinieri, di custodi. Sono un popolo di
contadini e agricoltori, trasposizione in chiave fantastica dei coltivatori
della campagna inglese (probabilmente di prima delle enclosures: piccoli o
piccolissimi proprietari), con le loro piccole e buffe manie. Tutto quello che
è hobbit è su scala ridotta, come loro stessi. Non regni, ma contee, non
palazzi, ma casette, non giardini incantati, ma orti. Anche nelle situazioni
più drammatiche salta fuori l’esigenza di fare colazione, il ricordo dei
frutteti e dei campi di casa (ad essi gli esausti Frodo e Sam, convinti di
essere in punto di morte, rivolgono l’ultimo pensiero mentre sono sulle pendici
in fiamme del Monte Fato). Custodi, quindi, di un mondo piccolo,
sostanzialmente immutato e che è bene rimanga così.
C’è un legame a mio parere, un
filo che unisce Elfi (ed Ent), la gente delle Grandi Storie, agli Hobbit.
Entrambi hanno un rapporto diretto con la natura, che custodiscono, ma mentre
gli Elfi sono in contatto con la natura vasta e selvaggia, vivendo nelle, delle
e con le foreste, gli Hobbit sono i custodi della natura addomesticata, dei
prati, dei campi coltivati, degli orti. Come gli elfi, e a differenza degli
uomini e dei nani, essi sono sostanzialmente incorrotti. Anzi, sono portatori,
come razza, di una forza sommessa e nascosta (in parte misteriosa per lo stesso
Gandalf) di cui Frodo si rivela il – decisivo – campione. Credo che
co-essenziale alla loro natura e a tale forza sia la capacità di sfruttare la
natura conservandola.
Oggi va molto di moda la lettura
“ecologista” di JRRT come anni fa andava di moda quella “politica” –
segnatamente di destra, ma credo che, mode a parte, sia corretta.
L’utopia tolkeniana è quella di
un mondo in cui uomo e natura sono in equilibrio e gli Hobbit sono un po’ i
sacerdoti di questo equilibrio (sul concetto di sacerdozio temo che mi toccherà
tornare). Ovviamente ogni equilibrio utopico non può essere alterato senza
venire distrutto ed è da qui che, secondo me, nasce il conservatorismo
tolkeniano – anzi, secondo me il suo essere reazionario, dacché, da buon
mitografo, JRTT tende a collocare la sua utopia nel passato, vero o
idealizzato, e non sotto il sole dell’avvenire.
Coerente con la aspirazione della
stabilità e l’understatement come modus vivendi quali connotati degli Hobbit,
sta anche la forma di eroismo che li contraddistingue. Frodo è essenzialmente
uno che porta e che sopporta. Porta, letteralmente, l’Anello e rimane fedele
alla consegna afferrandosi, aiutato da Sam, a pochi, semplici (piccoli, quasi
elementari, formalmente ingenui, stilisticamente minimalisti) principi. Gandalf
gli ha detto di buttare l’Anello nel Monte Fato? Bene, lui prende e lo fa
perché è giusto così e non c’è altro da fare. Che altro c’è da sapere?.
Questo ci porta a un altro
carattere dell’eroismo che, ancora una
volta, è coerente con la impostazione mitografica (e direi anche antimoderna)
dell’opera tolkeniana.
Nel SdA Frodo dice a Galadriel la
quale gli ha appena rivelato che, portato l’anello agli Elfi, non potrà tornar
indietro, ma dovrà sobbarcarsi il compito di gettarlo nel Monte Fato: “So che
cosa devo fare, solo che ho paura a farlo”. La forma, ancora una volta, è
semplicissima e cristallina e ci mostra quella che secondo me è una differenza
fondamentale tra gli eroi antichi e quelli moderni.
Gli eroi antichi di solito sanno
che cosa fare. Magari falliscono, sopportano sacrifici, subiscono conseguenze
gravissime, esitano, a volte perfino fuggono, ma non hanno dubbi su quel che si dovrebbe fare. Nessuno dei “buoni” tolkeniani ne ha. Gandalf
è problematico sul come, mai sul perché. Aragorn all’inizio del romanzo e per
un bel pezzo è in fuga dal suo dovere, ma sa di essere in fuga – e quando è il
momento torna come re. Frodo non dubita, come visto. Sam neppure, perché è
amico di Frodo, perché lo ha promesso a Gandalf e di altre motivazioni non ha
bisogno. Merry e Pipino si lanciano nell’avventura con allegra incoscienza e
per amicizia. Legolas e Gimli... be’ come diavolo dovrebbero agire un elfo e un
nano?
Sono gli eroi moderni,
soprattutto da Amleto in poi, che dubitano su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.
Quello che ha le idee più confuse è Boromir – e sappiamo che fine fa. Anche
Saruman ha dubitato sulla sua missione... ed è finito preda dell’Anello.
Soffermiamoci un attimo sul
dubbio. Boromir, ma anche Saruman (e Denetor) non dubitano del potere dell’Anello
o in generale dello strumento [altra lunga parentesi: c’è un punto in cui
Jackson rende cinematograficamente molto bene la concezione tolkeniana, ed è
quando un capo orco parla della società futura come dominata dagli orchi e
dalla macchina]. Essi dubitano che possa essere vero che, come dicono le
tradizioni, i miti, lo strumento del potere avrà la meglio sulla loro volontà.
Credono di poterlo dominare e, sistematicamente, succede il contrario... in
realtà molti personaggi sono soggetti allo stesso rischio, da Gandalf a
Galadriel. Sotto un primo profilo, quindi, il loro è un peccato di hybris; una
colpa, forse la colpa, ben nota
all’epica antica. Sotto un secondo profilo – e qui ancora una volta la colpa di
hybris diventa tolkeniana a causa della sua particolare accezione antimoderna –
essi sottovalutano il potere della materia, dello strumento, della macchina, e
credono che lo strumento che usano non li cambierà. JRRT invece ci suggerisce
che affidarci agli strumenti (e ancora una volta è lo stesso meccanismo che
porta Sauron all’autodistruzione), alla macchina, a un potere reificato e non
introiettato, comporta la perdita del proprio spirito, porta alla rovina e alla
perdita del libero arbitrio.
E visto che ho usato la parola
“spirito”, parliamo della dimensione spirituale degli Hobbit.
Tra tutti i popoli, essi sembrano
i più lontani da una visione spirituale elaborata. Niente clero (e questo è
comune a tutti i popoli della Terra di Mezzo), niente potere temporale, se non
in forma molto attenuata (chi governi la Contea rimane sempre sullo sfondo),
niente eroi, niente saghe adatte a grandi storie o a canti nei grandi palazzi,
come dice Pipino a Denetor. Non solo. Essi sono anche i più epicurei di tutti.
Golosi, pronti al riso, sopportano le fatiche e i rischi ma si lamentano con
più libertà di quanto facciano gli altri personaggi, hanno tanta paura quanto
coraggio, sono intenditori di tabacco ecc.
In effetti, credo che proprio questa sia la loro ritualità; è proprio il rammentare il mondo piccolo da
cui vengono ed il legame con lo stesso a dare a Frodo e Sam il coraggio e la
forza di andare fino al Monte Fato (che debbano andarci, come detto, non
dubitano mai).
In una parola (e.. sì... sarebbe
anche ora che tirassi le somme), la loro spiritualità è amore per la loro
terra. Più specificamente ancora.
Per il loro giardino.
Paesaggi e linguaggi
Lo strumento attraverso cui la
spiritualità si manifesta è la bellezza, bellezza che nel romanzo si esprime
attraverso il paesaggio ed linguaggio.
Non volendo ripetere una frase
ormai abusatissima, tanto da diventare insopportabile, la do per presupposta
per evidenziare come nel SdA sia espresso ri-correntemente l’ideale del kalòs kai agathòs . JRRT, come molto
fantasy ma non tutto, è immune alla seduzione del bello & dannato. I
personaggi positivi sono belli o in modo “sublime” (gli elfi) o in modo giocoso
e accattivante (hobbit), mentre i personaggi negativi sono brutti e cattivi e
soprattutto parlano in modo aspro, aggressivo e sgradevole. Basti leggersi
tutti i pezzi in elfico e in linguaggio nero o in entese per accorgersene. Non
che non ci sia seduzione, in JRRT, ma essa è morale e intellettuale, prima che
fisica ed estetica (si può anche notare come si “sporca”, via via, il
linguaggio di Saruman). L’imbruttimento è sempre specchio sintomo ed effetto
del male e questo vale indissolubilmente per luoghi e personaggi.
Un solo esempio tra tutti. Non
solo Mordor è orribile – sembra un paesaggio industriale, diciamocelo – ma allorché
Saruman, sfuggito alla prigionia, ferisce e danneggia la Contea, il vulnus è prima di tutto estetico.
A proposito di viaggi verso le terre imperiture e di escapismo
Il che mi induce a una
considerazione sul finale del SdA con il relativo viaggio di Frodo verso le Terre
Imperiture.
Come sappiamo, alla fine del SdA
Frodo, in quanto portatore dell’anello, ottiene un passaggio per Valinor,
lasciando indietro Sam – anche se si racconta che in seguito (e sempre perché
anche Sam, seppur per brevissimo tempo, è stato portatore dell’anello) lo abbia
raggiunto.
Senza entrare nel dettaglio della
mitologia tolkeniana, piuttosto complicata, Valinor è il luogo dove abitano i
Valar che credo con buona approssimazione possano essere definiti “dei” ma che
espressamente sono anche detti “Le potenze del mondo”.
Credo che tutto questo florilegio
di nomi consenta, con un po’ di fatica, di mettere un po’ d’ordine, specie se
si comincia dalla’inizio.
Nel Silmarillion ci viene detto
che Eru Iluvatar crea il mondo e i Valar (Morgoth è uno di loro, il più potente
e bello, e si ribella). Fatto ciò, Eru scompare dalla scena.
Reputo che da ciò si possano
trarre due conseguenze.
In primo luogo, e sempre per non
scordarsi del punto di partenza, una teorica “trascendenza”, nell’universo
Tolkeniano c’è. È però, appunto, una trascendenza teorica e, a me, la figura di
Eru ha sempre ricordato un po’ il primo motore immobile aristotelico...
insomma, non il vincitore di un ipotetico campionato di empatia per la sua
creazione. Il creatore sta da una parte, la creazione dall’altra e non si
frequentano. Si potrebbe dire che è stata solo una fugace relazione dei
primordi.
Un po’ più partecipi delle
vicende “terrene” sono i Valar e i loro sottoposti Maiar. Nel Silmarillion si
danno più daffare, mentre nel SdA si limitano a rimandare un Gandalf
“upgradato” nella Terra di Mezzo. In ogni caso, intervengono.
In secondo luogo, quindi, secondo
me può dirsi che, proprio perché i Valar sono assimilabili alle divinità
pagane, ma sono appunto “potenze del mondo”, le fila di questa terra sono tirate dalla Terra stessa e precisamente
da quella parte della Terra dove si trovano gli dei, quindi dove si trova il
mito.
Pur non negando, anzi, affermando
espressamente una trascendenza, JRRT afferma quindi apertis verbis, secondo me, che i destini e il senso del mondo
stanno nel mito che è un mito del mondo non estraneo allo stesso.
Con questo, mi sia consentito
fare una digressione a proposito dell’escapismo che sarebbe il peccato più
grave di tutta l’opera tolkeniana, più in generale di tutto il fantasy e più in
generale ancora di tutta la narrativa fantastica. Non credo che JRRT abbia
costruito un mondo mitologico per nascondervisi. Credo che, da buon
medievalista, abbia costruito un mito perché riteneva che quello fosse il linguaggio
migliore per “dire” il mondo. Ovviamente una lingua non è solo per come la
pronuncia chi parla, ma anche e soprattutto per come la intende chi ascolta, e
questo complica le cose – e da questa complicazione l’accusa di escapismo. Però
la buna fede di Mr Tolkien lasciatemela presumere.
Chiusa la digressione, torno al
punto. I Valar sono le potenze del mondo, sicché, data la sostanziale assenza
di Eru, si può dire che i destini del mondo si trovino nel mondo stesso – anche
se, ed è bene ribadirlo, i Valar non sono affatto onnipotenti, come non lo
erano gli dei greci o scandinavi.
Tuttavia, secondo punto, essi
sono anche separati dal resto de mondo perché si trovano nella terra del
mito, la cui progressiva, irreversibile e definitiva separazione dalla Terra di
Mezzo è un po’ il motivo ricorrente di
tutta l’opera tolkeniana.
Ebbene, per tornare a Frodo,
della cui partenza temo che stavamo per dimenticarci, il suo salpare per
Valinor, che chiude il SdA, rappresenta l’atto finale di questa separazione,
che segna la fine della Terza Era in cui creature mitologiche, specie
inferiori, rimanevano su questa terra, dalla quarta, che segna la scomparsa
progressiva di tutte le razze parlanti, lasciando l’uomo unico e solitario
abitante della Terra di Mezzo.
Al termine del suo viaggio a
ritroso nel tempo oltre che avanti nello spazio, portato a compimento il suo
sacrificio, entrato in profondo contatto coi poteri che regolano la terra, così
profondo da venirne irrimediabilmente segnato nella carne e nello spirito, Frodo
entra anch’egli nel mondo del mito, accedendo alla dimensione di Gandalf (che,
non scordiamolo, è un Maia) e degli Elfi e lo fa esattamente nel momento in cui
quella dimensione e questa, che già si erano allontanate, si separano
definitivamente.
Egli non è più né può più essere
un semplice hobbit – con tutte le caratteristiche che sopra ho cercato di
enunciare – è, egli stesso, mito.
La sua partenza è quindi una
sorta di assunzione o consacrazione.
Chi rimane qui è Sam, il quale,
non a caso, fa il giardiniere (ed è proprio mentre faceva il suo lavoro, che
origliando, è stato letteralmente trascinato da Gandalf nell’avventura) e che –
e ancora una volta non è un caso – terminerà il libro iniziato da Bilbo e Frodo.
Lo spleen tolkeniano
Conclusivamente (e mi par di
sentir giustamente dire che è ora che concluda) vorrei parlare dell’amarezza e
della malinconia che pervadono tutta l’opera di JRRT e il SdA in particolare.
Questa malinconia è legata,
ancora una volta (e ancora una volta anticipo le conclusioni, così si abbrevia
tutto) alla Morte del Mito ed opera a due livelli, alto e basso, macrocosmo e
microcosmo, Gandalf e soci e, dall’altra parte, Sam.
Quanto al “gruppo Gandalf” (nel
quale metto Galadriel e anche Frodo, visto che parte) torniamo un attimo
all’inizio, quando tutto era ancora da giocare.
Gandalf dice a Frodo che si deve
distruggere l’Anello del Potere (non scordiamoci la parola “Potere”, ok?).
Ora: ci sono cose che Gandalf sa, fa e racconta, cose che Gandalf sa,
o ipotizza, e non racconta, anche se magari le fa (pensiamo a quante volte
scompare e quante volte gli altri si chiedono dove sia finito), cose che
Gandalf ignora del tutto, qualche volta ammettendo espressamente la propria
ignoranza, o invitando alla prudenza. Una cosa, però, secondo me, Gandalf sa
sin dall’inizio: che distruggendo l’Anello
del Potere non consentirà affatto la permanenza del mito sulla terra, ma anzi
ne determinerà la distruzione o, per meglio dire, la Separazione dalla Storia.
Sa sin dall’inizio che, distrutto l’anello, Elfi, Istari (cioè lui stesso) e
altre genti partiranno e che le altre creature fantastiche declineranno
inesorabilmente, finché la Terra di Mezzo non sarà dominata dai soli uomini.
Certamente lo sa Galadriel che, resistendo alla tentazione di indossare l’Unico
anello profetizza “perderò i miei poteri, andrò all’Ovest e rimarrò Galadriel”.
Se lo sa una portatrice di anelli, non può non saperlo anche l’altro (sia
Gandalf sia Galadriel per tutto il romanzo hanno portato due degli anelli del
potere minori). In poche parole, la distruzione dell’Anello del Potere
determina la distruzione degli Anelli minori – che ad esso sono subordinati e
legati (quello, ricordiamolo, è l’inganno dello strumento, ed è stato così sin
dall’inizio, sin dalla creazione degli Anelli) – che a loro volta determinato
la distruzione del mito. Volendo fare una contro storia del Signore degli
Anelli, se Sauron avesse riconquistato l’Unico, sulla Terra di Mezzo avrebbe
regnato per sempre un potere mitico: quello di Sauron stesso. Siccome non
succede, il Mito muore, e inizia la Storia.
A livello apparentemente più dimesso, è la stessa storia
degli Hobbit e degli uomini. Frodo assurge, come detto viene “consacrato” a
creatura mitologica, partendo per le terre imperiture, Sam rimane – ma ci viene
detto che partirà, come anche Gimli (che è un nano, quindi non avrebbe diritto
di raggiungere Valinor, ma vi viene portato dall’amico Legolas).
E gli uomini?
Sul loro destino JRRT non si dilunga troppo. Dal Silmarillion
e anche in parte dal SdA sappiamo che la morte è il dono loro riservato (grazie
tante, eh?). In realtà ad instillare la paura della morte nei loro cuori è
Morgoth, all’inizio dei tempi. Qui c’è una notevole differenza nella teologia
cristiana in quanto per essa la Morte (che faccia paura, nessuno lo mette in
discussione) entra nel mondo a seguito della scelta dell’Uomo il quale usa il
libero arbitrio per seguire la strada che il Serpente gli suggerisce, mentre il
Nuovo Testamento profetizza che “l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la
morte”. Nell’universo di JRRT, invece, la morte è parte integrante della
creazione sin dall’inizio ed è il creatore stesso a far sì che così sia: non
c’è nessun agente esterno ad instillarla in Ea: Morgoth ne insinua solo il
terrore, ma è cosa diversa.
Su cosa succeda agli uomini dopo la morte, JRRT glissa. Di
certo, le Terre Imperiture sono loro interdette – e qui volendo c’è un altro
elemento antimoderno: la “chiamata” è tendenzialmente elettiva, anche se con
non poche eccezioni, solitamente frutto di una combinazione di pre-requisiti e
iniziazione, ma non è mai
universale. Non è che tanti sono i chiamati ma pochi gli
eletti, è esattamente il contrario: pochi sono gli eletti e poi qualcuno può anche essere chiamato (nel SdA come visto a
fornire il biglietto di ingresso ai non eletti è l’aver fatto parte della
Compagnia dell’Anello).
E veniamo agli Hobbit.
Frodo viene come detto “consacrato” e quindi si eleva da
creatura delle favole (quali in effetti gli Hobbit sono) a creatura del mito.
Molto tempo dopo lo stesso toccherà a Sam. La scena non ci viene raccontata, ma
riferita nelle appendici al SdA.
A questo punto la Separazione è completa. Il Mito è Morto. Le
lingue degli Elfi non vengono più parlate, le altre razze parlanti sono
scomparse. Come ho detto e ridetto, nel mondo dopo l’Anello vivranno solo
uomini.
Da qui, senza tirarla per le lunghe e anche senza
approfondirla troppo perché mi sembra evidente, deriva la malinconia
tolkeniana: dalla contemplazione che, benché il linguaggio del mito sia quello
che la descrive meglio, esso non descrive più, non appartiene più, non è più la
lingua della Storia perché Mito (e immortalità: quali siano state le
convinzioni religiose di Mr JRRT non lo so e non mi interessa) e Storia si sono
irreversibilmente separati.
Tranne forse che per un tenue, quasi impercettibile legame.
Il Giardiniere Sam (fatemi insistere un’ultima volta sul
ruolo degli hobbit come custodi della natura in equilibrio tra uomo e mondo
selvaggio, equilibrio che si esprime innanzi tutto esteticamente) oltre a
tornare per prendersi cura della sua Rose (bé... come si poteva chiamare se non
“rosa”?) e della Contea, e dopo aver adempiuto questi compiti, fa un’altra e
un’ultima cosa.
Conclude il Libro Rosso dei Confini Occidentali, iniziata da
Bilbo e proseguita da Frodo e che altro non è che il libro che in questo
momento il lettore ha in mano e che sta terminando, la versione originaria e
originale del Signore degli Anelli stesso. Come a dire che, anche se il Mito è
morto e anche se non vi è Storia senza morte e la morte della Morte è la morte
della Storia, qualcosa, a metà tra sogno, scherzo e inganno, rimane. Anche qui.
Rimane un racconto da narrare.
«Sarai Sindaco,
naturalmente, finché vorrai, e il più famoso giardiniere della storia; e
leggerai brani del Libro Rosso, mantenendo vivo il ricordo dei tempi passati,
affinché la gente ricordi il Grande Pericolo ed ami ancora di più il suo caro
paese. Tutto ciò ti renderà occupato e felice finché durerà la tua parte nella
Storia».
John Ronald
Reuel Tolkien – il Signore degli Anelli.
Innanzitutto grazie di aver donato questa mirabilia all'Isola di Rayba, Roberto: volevo focalizzare due aspetti di questo saggio e delle nostre conversazioni (che speriamo di aprire a tante amiche e amici della narrativa fantastica, e non solo fantasy, come riduttivamente s'etichetta Tolkien).
RispondiEliminaIl libero arbitrio e il rapporto tra storia e mito nell'opera di Tolkien.
Per quanto mi riguarda, il rinnovato interesse per Tolkien è partito proprio da un mio studio sul rapporto tra storia e mito in narrativa, e in particolare la differenza tra l'Edipo di Sofocle e l'Amleto di Shakespeare.
Per comprendere questo piccolo mistero è sempre sembrata d'importanza capitale questa frase tratta dalla poetica di Aristotele:
" la poesia (il mythos) è cosa più nobile e più filosofica della storia, perchè la poesia tratta piuttosto dell'universale, mentre la storia del contingente e del particolare".
Adesso lasciamo perdere la preferenza d'Aristotele che scriveva così perchè non era d'accordo sulla condanna della poesia da parte di Platone, e giustamente...ma è un altro discorso lunghissimo che non appartiene a questo saggio.
Trovo fondamentale l'equazione mito/universale, storia/particolare...
L'epoca moderna comincia con il grande Bardo che ci racconta quello che succede nell'immaginazione dell'uomo NELL'INTERVALLO tra intenzione e azione, tra desiderio e gesto.
E' lì che nascono le streghe, il fantasma che vede Bruto e lo spettro che vede Amleto.
L'agnizione del Fato che ci viene incontro.
Nello spazio di quell'interim nasce la modernità...
Ma il Bardo c'insegna e ci mostra che cadere elle mani del desiderio non è una liberazione, ma una lotta, che sovente l'uomo nella sua fragilità perde...è terribile cadere nelle mani del Dio vivente...
Così manipolato dai romantici, Shakespeare ne è totalmente distante...
Ecco, negli hobbit c'è qualcosa di scespiriano e nello stesso tempo un contromovimento (un andare all'origine o un restare fedeli alle radici) che rinnega quel cadere in mano al desiderio in modo disumano...Frodo non avrebbe mai scannato Duncan e anzi, consapevoli che ogni desiderio rechi in sè UNA PARTE MALEDETTA (istruiti da Gandalf, che appartiene alle potenze angeliche discendenti da ILUVATAR, il SUONO) la religiosità Hobbit si sbarazza della stessa gettandola nel vulcano...e in base a queste mie convinzioni che, tra i romanzi del Novecento, ritengo attuali 1984 di Orwell per quanto riguarda la diagnosi del nostro tempo, ma il SdA è ancora attuale per quanto riguarda la parte TERAPEUTICA E SALVIFICA; e paradossalmente ci sono arrivato passando dallo studio su Shakesperare; se siamo schiavi dei nostri desideri saremo dei fantacci nelle mani delle streghe, dei fantasmi e degli spettri.
Credo che per Tolkien la lezione del Bardo sia stata fondamentale, come lo è stata per me.
Compreso questo diventa abbastanza semplice capire qual'è per me il nodo fondamentale del Signore degli Anelli e di tutta la difesa della Terra di Mezzo da parte di Tolkien:
Nel Signore degli Anelli, davanti alla cruciale domanda di Frodo sul perchè sia stato scelto proprio lui per portare un fardello così pesante e pericoloso come l'Anello del Potere, Gandalf risponde così:
"Puoi credere che ciò non sia dovuto al alcun merito particolare o personale: non certo per via della tua forza e della tua sapienza, in ogni caso.
Ma sei stato scelto tu, e hai dunque il dovere di adoperare tutta la forza, l'intelligenza e il coraggio di cui puoi disporre."
Siamo stati scelti noi per scegliere tra bene e male: e da questo deriva una grande responsabilità.
Pertanto l'assurda e ricorrente accusa recata a Tolkien di essere un fanatico manicheo, di dividere l'universo tutto in bianco e neo cade miseramente.
Viviamo in un mondo pieno di nebbia, grigi e mezze misure e sfumature e solo quello che scegliamo diventa bianco o nero a seconda delle conseguenze che causano le nostre azioni.
Se troviamo la forza di leggere ancora Tolkien in modo non manicheo, il capolavoro ci regala molte meraviglie:
RispondiEliminaa) la nobilitazione dell'ignobile ovvero la sacralizzazione dei desideri e degli ideali dei miti, semplici e laboriosi hobbit;
b) l'amore per la terra e per il mondo corporeo (e pertanto ricomposizione tra corpo, anima e spirito e tra uomini e le altre creature (dominerete e soggiogherete ecc ecc), per me follemente separate dalla Genesi dell'Antico Testamento. Credo che Gesù abbia riformato con l'Incarnazione (lui diceva "compiere") quegli antichi errori, e alcuni miei amici ebrei non ortodossi sono d'accordo) che però non è eterno;
c) il mistero della morte e il desiderio dell'immortalità; il coraggio e la fede che occorrono agli esseri umani per proiettarsi Oltre il loro Ego e oltre il carcere del Secondo Tema, che altro non è che l'attuale sacralizzazione della realtà e lo schiacciamento sul presente;
d) l'amicizia, fino alla donazione della propria vita, e dotata di fine umorismo (non nichilistico, ma teso a costruire) che vince l'isolata superbia dei potenti;
e) il fatto che la storia umana non è solamente umana ma è inscritta in una storia più grande (per me quella dei Tre Temi) e tra le due esiste una comunicazione in virtù dell'arte e dell'operare costruttivo...
In conclusione dico che se il tuo saggio e tutto il nostro ciclo dei Grossipiedi (compiuto con l'aiuto delnostro grande amico TOny) spingesse qualche lettore a leggere il SdA in questa chiave, per la prima o per la seconda volta, non potrebbe esserci gioia più grande per tutti noi...
Abbi gioia, grande mago delle Terre Vaste