- Robert Ryman -
Studio di immagini I
Studio di immagini I
"Non serve parlare del grande cespuglio blu
del giorno. Se lo studio delle sue immagini
è lo studio dell'uomo, quest'immagine del sabato,
questo simbolo italiano, questo paesaggio del Sud, è come
un risveglio, come nelle immagini noi ci risvegliamo,
entro l'oggetto stesso che cerchiamo,
partecipi del suo essere. Esso è, noi siamo.
Egli è, noi siamo. Ah, bella! Egli è, noi siamo,
entro il grande cespuglio blu e la sua vasta ombra
di sera e di notte."
Wallace Stevens
Wallace Stevens
Domenica, 3 aprile 2016, lanca dei salici bianchi.
La scena era da film: Anna aveva ammanettato con delle fascette di plastica, usate da Riccardo come materiale per le bici, a tre alberi, Mauro, Paolo e suo marito Ricky.
La donna, per quanto snella e atletica, stava cercando di calmare il respiro dopo aver lottato ed essere riuscita a intontire Riccardo col suo storditore elettrico Skorpy 2000, regolato a soli 50000 volt dei suoi 200000 potenziali.
Mai e poi mai avrebbe immaginato di usarlo contro se stessa, suo marito e i suoi amici più cari.
Aveva fatto bene a portarselo dietro, non si sa mai che cosa può capitare nel mondo.
Dopo aver legato i polsi di suo marito a una robusta farnia di palude, si sdraiò schiena a terra, e contemplando il cielo rimise in fila i fatti di quella giornata.
Dopo l’inquietante incontro col cercatore di funghi, erano arrivati dopo una mezzora, ormai a sera, alla lanca dei salici bianchi.
Mentre piazzavano le tende e preparavano la cena, osservarono lo strano biancore dei salici intorno a loro.
Era vero, troppo bianco quel bianco e troppo argentate quelle acque.
L’indomani sarebbero andati a esplorare gli alberi.
Anna aveva già intuito dal silenzio che c’era qualcosa di preoccupante in quel posto, per quanto doveva ammettere che era davvero affascinante nella sua bizzarria.
Impressione che era stata acuita dall’ascolto del racconto “I salici” di Algernon Blackwood, letto da Mauro quella sera sulla sponda della lanca, nella fioca luce della torcia elettrica.
Due turisti in canoa, un inglese e uno svedese, risalgono il Danubio e restano isolati a causa di una tempesta su una sperduta isola fluviale.
Dovranno confrontarsi con entità indecifrabili legate alla vegetazione del luogo e completamente estranee alla dimensione umana.
“Potrò mai dimenticare la solitudine di quell'accampamento sul Danubio? La sensazione di essere completamente solo in un pianeta deserto! I miei pensieri correvano senza sosta alle città e alle tane degli uomini. Avrei venduto l'anima, per così dire, per "sentire" i villaggi bavaresi che avevamo attraversato a decine; per le cose più umane e banali: contadini che bevono la birra, tavoli sotto gli alberi, sole caldo, e le rovine di un castello sulle rocce dietro la chiesa dal tetto rosso. Perfino i turisti sarebbero stati i benvenuti.
Eppure quanto sentivo o temevo non era la solita paura dei fantasmi. Era infinitamente più grande, più estranea, e sembrava nascere da qualche oscuro sentimento ancestrale di terrore che mi turbava molto più profondamente di qualsiasi cosa avessi mai conosciuta o immaginata. Ci eravamo "allontanati", come diceva lo svedese, in qualche regione, o in qualche insieme di condizioni dove correvamo grossi rischi, a noi tuttavia incomprensibili; dove le frontiere di qualche mondo sconosciuto erano vicinissime a noi. Era un posto dominato dagli abitanti di qualche spazio esterno, una sorta di feritoia dalla quale potessero spiare la terra, non visti, un punto in cui il velo si era un po' consumato. Come risultato finale di un soggiorno troppo lungo in questo luogo, saremmo stati trasportati oltre il confine e privati di quella che chiamavamo la "nostra vita", ma attraverso un processo mentale, non fisico. In questo senso, come diceva lui, saremmo stati le vittime della nostra avventura: un sacrificio.”
Il mattino dopo erano andati a vedere da vicino quegli strani salici bianchi e avevano scoperto che erano tutti ricoperti da nidi biancastri brulicanti di “gatte pelose”.
Ce n’erano a milioni, dappertutto.
E nello specchio d’acqua della lanca notammo, ben nascoste come loro abitudine, centinaia di gallinelle d’acqua pronte a inghiottire i molti bruchi che scivolano dai nidi.
Poi, come in un incubo, tutto era accaduto come un’inesorabile reazione a catena.
Centinaia di leucoma salicis avevano “sparato” verso i loro volti migliaia di peli urticanti che si erano conficcati nei loro occhi come minuscole frecce a forma di ago.
Lei per istinto era riuscita con un avambraccio a coprirsi l’occhio sinistro, ma il destro era stato colpito, come tutti gli occhi degli altri compagni di sventura.
Imprecando per il dolore e semiaccecati erano tornati all’accampamento per lavarsi gli occhi con le loro riserve d’acqua.
Si tenevano per mano e lei guidava l’incerta comitiva con il suo occhio sano.
Il bruciore dentro le cornee era quasi intollerabile e anche l’acqua recava ben poco sollievo.
Con una pinzetta Anna cominciò pazientemente a togliere tutti i peli urticanti penetrati nelle congiuntive oculari.