di GisElla
Erano anni che aspettavo questo momento e ora, che sono sulle tracce di mio fratello, non so cosa fare. È bastato un dipinto buttato sul web a farmi tornare in mente Franco e il suo stile inconfondibile. Anche qui sembra che l'orrore abbia preso forma e il sangue scorra sull'immagine, come il prezzo di un grande sacrificio o di una passione letale. La firma nell'angolo è praticamente illeggibile, minuta e accartocciata su se stessa, proprio come la sua. Quale prova in più posso volere sulla paternità dell'opera? Non c'è dubbio che si tratti di lui, l'ho ritrovato. Non è stato facile da quel quadro risalire a un blog personale contenente anche un indirizzo mail, ma dovevo trovare un modo per mettermi in contatto con lui.
Sono giorni che sto a fissare quella sorta di pulsante virtuale, per aprire con un click il quadrato in cui inserire un commento. Mi sono passati fiumi di parole per la testa, senza riuscire a buttar giù una sola frase.
Sono due notti che mi rigiro nel letto e il fiato si fa corto. Piango, rido e poi mi lascio andare alle note più nere che possa ascoltare. La voce di Rozz Williams mi culla nella sua maledizione, mi fa accarezzare di nuovo i tempi passati, in cui mio fratello era con me. Eravamo un tutt'uno noi due: talmente uniti, fatti e bevuti, con la nostra autodistruzione e quell'eco lontana d'angoscia. Così estranei a questo mondo, non eravamo destinati a durare. Forse per questo ci siamo separati a un certo punto, senza lasciare tracce, eliminando ogni possibilità di poter tornare indietro.
Ci somigliavamo molto anche nell'aspetto. I nostri capelli corvini ricadevano sulle spalle con disinvoltura, erano incolti e ribelli come i nostri ideali che si diramavano caotici, simili a fili arruffati. Intanto, in automatico, arrotolo sull'indice una ciocca, come eravamo soliti fare allora. Mi studio nello specchio. Nelle iridi chiare rivedo l'inquietudine e l'abisso emotivo di Franco; è ancora con me, per quanto il tempo crei un confine tra la vita trascorsa in comune e il mio oggi solitario.
Sono quegli occhi a farmi decidere a scrivere, sono le sfumature di grigio a confondersi con i fumi dei ricordi. Non ho scelta: devo contattarlo. Dopo tanto indugiare, in meno di un minuto, butto giù due frasi: “Sono Claudia. Sì, sono proprio tua sorella”.
Lascio il computer acceso e continuo ad aspettare una sua risposta che, forse, non arriverà mai. Non mi sono mai sentita tanto sola come in quest'attesa. Un freddo glaciale mi penetra dentro fino al cuore.
Passo un paio di giorni adagiata nel buio, avvolta da musica cupa (i nostri vecchi Christian Death).
Solo il rosso del sangue colora le mie ore vuote. Sputo i grumi che circondano la cavità lasciata dal mio molare marcio. Anche ora, che il dente non c'è più, soffro; anzi pare proprio che si sia aperta una voragine nel profondo e ciò che vi era sepolto, è libero di venire a galla.
Sono matta? Un dente non c'entra un fico secco con gli orrori del passato? Se lo dicessi al mio dottore, temo che mi farebbe ricoverare nuovamente, ma ho ben imparato a tenere i pensieri per me, a fingere di essere normale, per quel che può valere questa parolina.
Dopo due giorni senza risposta, la mia ossessione si allenta. Mi sento abbandonata anche da mio fratello, quasi spero di non sentirlo più. Non voglio soffrire, desidero solo allontanarmi da quel senso di rifiuto che mi tortura ogni volta che si presenta.
Mi sto quasi assopendo, quando un campanello mi avvisa che è arrivata una mail. Mi desto di colpo. Per la quarta volta in questi giorni, corro al computer per vedere chi sia il mittente. Mi continuo a ripetere come fosse un mantra: “È solo maledetto spam”, eppure il cuore non può fare a meno di sperare. Quando leggo il suo nome mi sento mancare, mi devo appoggiare alla sedia per non cadere. Dopo vent'anni una buona fetta del mio passato, di ciò che sono stata, mi torna indietro tramite posta elettronica, attraverso parole che scorrono su un fottuto monitor.
Franco non è stato coinciso come me, nella sua lettera mi rievoca eventi remoti mescolati a sprazzi di presente. Anche lui ha tolto il dente ventisei, è incredibile come le analogie tra noi si susseguano. Ha chiuso con alcol, droghe e da tre anni ha smesso persino di arricchire le multinazionali del tabacco. Stupefacente il nostro sincronismo pure in questa svolta sulla ricerca di una vita sana. Adesso sulla tela usa solo tubetti di colore, vi stempera gli orrori personali senza ferirsi o tagliare qualcuno. L'unica eccezione è stata dopo l'estrazione del dente; si è trovato nuovamente a dipingere col sangue ancora vivo. Rimango esterrefatta dal parallelo, se penso che la stessa notte io mi sono spogliata sotto la luce sinistra di un candelabro, proprio l'illuminazione che prediligeva Franco, e mi sono spalmata la mia saliva rossa per tutto il corpo. Sapevo che stavo compiendo qualcosa di assurdo, che quel sangue m'inebriava malevolo come una bottiglia di vino corposo. Non sono riuscita a fermarmi e la mattina la mia pelle era completamente colorata da chiazze di sangue secco. Mi sono messa davanti a uno specchio e sono rimasta tutto il tempo così: immobile, immune al freddo o a qualsiasi altra cosa. Non me lo sono ancora lavato di dosso; ma ora che so dell'esistenza di una nuova tela, posso pulire la mia pelle, sciogliere questo marchio perverso che mi ostino a conservare.
Cosa avrà dipinto Franco? Che si sarà liberato dal profondo della sua gengiva? Ha descritto tante cose nella mail, ma nemmeno un cenno a questo importante dettaglio. Un tempo mi avrebbe raccontato ogni centimetro del suo quadro, affinché capissi il valore di ogni singola goccia ematica. Adesso, invece, sull'argomento c'è solo silenzio; ha paura come me di quello che potremmo resuscitare. Ma non credo si possa mettere un piede nel passato e poi fare finta di niente, ormai siamo costretti ad andare fino in fondo. La cavità è aperta e non si chiuderà da sola.
Faccio una doccia e lavo via quel colore che si era appiccicato sul mio corpo, riportandomi ai tempi lontani, a quell'adolescenza macabra e ribelle.
Scrivo a Franco, senza preamboli gli domando dell'immagine che è emersa dal sangue. Temo di conoscere la risposta, ma deve essere lui a dirmelo, a ricordarmi i miei ritratti. Ho sempre trovato odioso posare e al contempo eccitante, quanto può esserlo una sfida contro la morte.
Arrossisco se ci penso, ma sono stata tante volte la sua musa, come era solito definirmi. Mi sono sforzata di vederlo alla stregua di un gioco; invece era una sorta di esorcismo, una specie di rito per sfuggire al pericolo, per cancellare l'abominio a cui siamo sopravvissuti.
Mi risponde tempestivo, eludendo la domanda, aggrappandosi con tutte le forze a un'illusoria realtà che non ci appartiene. Mi narra distrattamente delle bravate di una volta, per passare con disinvoltura all'attuale appuntamento col dentista. A proposito, mi fa sempre male la gengiva, esce tanto pus. Ho la faccia gonfia, devo andare a fondo di questo marciume, scavare fino a debellarlo. Anche se dovessi farlo da sola, se lui non volesse aiutarmi, ricostruirò tutto.
Ma cerco di andare per ordine e raccontare dapprincipio la nostra storia. Non voglio lasciare nell'oblio nemmeno un dettaglio. Spremerò tutta l'angoscia che c'è in quella cavità, per portarla alla luce e farla incenerire, come la carcassa di un vampiro baciata dal sole. Scriverò tutto caro fratello, farò resuscitare i nostri ricordi per liberarci, una volta per tutte, del nero che ci sovrasta. Giusto un po' di musica ad accompagnare la stesura della lettera. Lascio partire Cavity e sono pronta.
Sono vissuta in simbiosi con Franco sin dalla più tenera età, dicono che l'infanzia sia un periodo innocente e spensierato, ma di allora ho in mente solo gli incubi che facevo. Mi svegliavo di notte, circondata dai brividi, e mi infilavo nel suo lettino. Dormivamo poco, come se una minaccia incombesse su di noi; poi rammento solo il buio con la sua oscurità assoluta. Non ho bei ricordi di quella che dovrebbe essere una fase gioiosa dell'esistenza. No, per niente.
Non posso scordare Zio Rinaldo che era molto legato a me e mi viziava in maniera indecente. Tutte le estati, gli zii si occupavano di noi, come se fossimo stati i figli che non avevano mai avuto.
“C'è aria salubre qui e i bambini ne hanno bisogno” soleva ripetere mio zio; ogni occasione era buona per tenerci da lui.
La casetta era proprio sulla spiaggia. Anche con le finestre chiuse il rumore delle onde si propagava in ogni angolo, non mi abbandonava mai.
Non amavo stare in casa. Preferivo trascorrere la giornata al mare, immergermi nella sua dimensione sconfinata. Volevo andare sempre più lontano col piccolo salvagente che mi teneva a galla, stavo così bene dentro l'acqua, mi sembrava di perdermi nell'infinito. Tra le onde ci sono i momenti più belli che conservo di quegli anni, i pochi felici che si affacciano alla memoria.
Lo zio morì giovane; eravamo alle medie l'ultima volta che andammo da lui. Nonostante tutte le attenzioni che aveva per me, non piansi per la sua scomparsa, ma temetti soprattutto di non rivedere più il mare.
Per fortuna, con me c'era Franco a consolarmi. A sostituire l'immensità dell'azzurro.
Crescendo, stavamo sempre più per conto nostro; c'era qualcosa di malsano nella nostra famiglia. Con qualche bottiglia e un po' di roba, sapevamo evadere del tutto da quella stramba normalità casalinga. Per noi non c'era niente di più naturale che avere un padre pazzo e imprevedibile. Stavamo sempre attenti ai suoi umori altalenanti e al grado d'ebbrezza in cui si trovava. Lui era un artista famoso e al contempo un genitore ignobile: sensibile solo per se stesso, folle come pochi e a tratti violento. Noi ci eravamo abituati anche se, a differenza di nostra madre, non facevamo finta che fosse diverso. Lui, grande pittore rinomato, firmava autografi e noi ci vergognavamo di lui, temendo le sue scenate eclatanti. Che coraggio aveva a criticare i nostri giubbotti di pelle o il mio rossetto nero. Era l'essere più dissoluto e menefreghista che abbia mai conosciuto, come poteva rimproverarci qualcosa?
La mamma era diversa: provava a prendersi cura di noi, ma era così distante, talmente lontana dalla realtà che non si poteva comunicare con lei.
Ma non voglio perdermi in critiche o rancori personali, perché è quella notte che voglio rammentare. Mi riferisco alla volta che tornammo a casa ubriachi e sentimmo lamenti provenire dalla cantina. Era molto tardi e barcollavamo. Scendemmo per quelle scale ripide, fino alla porta chiusa. Una voce roca si mescolava a quel pianto. Scrutai dalla serratura e vidi nostro padre che dipingeva. C'era una donna legata al letto, era coperta di rosso. Lui intingeva il pennello nella sua carne e col suo stesso sangue la ritraeva. Che orrore se ci ripenso, m'illudevo di aver cancellato tutto, invece quell'immagine è di nuovo dinanzi ai miei occhi.
Non riuscivo a credere che quel pazzo potesse arrivare a tanto. Presi la mano di Franco e la strinsi con veemenza. Attenta a non fare rumore, non avevo altro mezzo per esprimere il mio panico.
Anche mio fratello guardò quell'abominio, poi d'impulso mi strattonò via. Salimmo di corsa le scale per tornare a un'atmosfera casalinga normale.
Andammo in cucina per scolarci una caffettiera grande; mandammo giù quel liquido amaro, senza un filo di zucchero per addolcire la paura. Dovevamo ripigliarci da quanto avevamo tracannato, era necessario che fossimo lucidi. Bisognava capire cosa fare. Passammo la notte svegli, vagliando mille soluzioni: da un'incursione nel seminterrato per salvare la donna, a una fuga da casa e dalla perversione che ci circondava. Se fossimo scappati, non avremmo avuto un solo luogo sicuro in cui rifugiarci e nemmeno sapevamo dove trovare la chiave per liberare la prigioniera. Avremmo, forse, potuto rivolgerci alla polizia, ma non ci fidavamo degli sbirri e, poi, ci sembrava un'azione pericolosa: lui si sarebbe certamente vendicato.
La mattina ci scoppiava la testa, dovevamo dormire. Ci calammo un paio di roipnol ciascuno, giusto per recuperare le forze con un buon sonno. Il nostro letargo durò ventiquattr'ore. Nostra madre provò a chiamarci, ma desistette dopo qualche insulto e un dito medio rivoltole contro. Ci lasciò nel letto sfatto di Franco, dove ci eravamo annodati l'uno all'altro come due bambini spaventati. Pareva, che in quello stare insieme, potessimo proteggerci meglio.
Ci facemmo una riga di speed appena svegli, giusto per azionare il cervello e decidere sul da farsi. Un po' di polvere ci aveva snebbiato la mente, ora sapevamo come agire: non restava che salvare la modella e poi darci alla fuga.
Non avremmo mai trovato la chiave dello stanzino in cui era rinchiusa, perciò dovevamo scassinare la serratura. L'avevamo già fatto una volta, quando volevamo fare una festa in una casa abbandonata con dei nostri amici. Non era stato difficile lì e i serramenti mezzi marci ci avevano aiutato parecchio.
Aspettammo che nostro padre uscisse per delle commissioni. Dopo averlo visto salire in macchina, scendemmo giù con la cassetta degli attrezzi.
Sbirciai dalla toppa: la vittima, oltre ad essere legata, aveva del nastro adesivo sulla bocca. Tremava. Era nuda in quell'umido stagnante, tutta coperta di sangue, del suo sangue.
Lui, però, rientrò quasi subito; forse aveva scordato qualcosa nel suo studio sotterraneo oppure aveva mangiato la foglia. Ci sorprese così, dinanzi a quella maledetta porta, come due scassinatori dilettanti.
Franco provò a colpirlo con il piede di porco, ma quel bastardo era agile e scansò il colpo. Rideva come un pazzo. C'era qualcosa di grottesco in quella scena se ci ripenso adesso. Noi che fuggivamo spaventati e nostro padre, tremendamente divertito, che ci correva dietro.
Ero sulle scale, quando mi acchiappò. Mi afferrò per una caviglia e io caddi di faccia, sbattendo contro lo spigolo dello scalino. Sentii il sangue caldo uscire dalle labbra e in bocca i pezzettini di un dente frantumato. Piangendo implorai mio fratello di scappare via veloce, almeno lui doveva salvarsi. Il mio frignare innervosì quel mostro che mi colpì con furia alla nuca. Persi i sensi.
Mi svegliai nel buio, circondata da orrore invisibile. Ero legata a un letto, imbavagliata e completamente nuda, percorsa da brividi violenti. Mi venne in mente la donna torturata; il terrore mi attraversò tutta quanta, fino alla vescica, e l'urina cominciò a scorrere, scaldando, per un momento, il culo e le cosce. Non vedevo niente e nemmeno potevo muovermi, chissà dov'era il mio gemello. Pregai tanto che almeno lui fosse libero. Rimasi così immobile al freddo. Il tempo non aveva più senso, mi sentivo appesa al vuoto. C'era solo da aspettare che giungesse il mio destino.
Il fato arrivò, annunciato da uno tintinnio di chiavi. Un candelabro recava quelle flebili e calde fiammelle che portavano la luce. Mio padre mi scrutava serio, studiava le mie forme e la mia espressione. Mi fece cenno di stare in silenzio, mentre mi toglieva il bavaglio. Sussurrai sottovoce il nome di Franco, ma lui tacque ostile. Non si curava di me: ero diventata un semplice oggetto da dipingere. Ripulì le mie labbra sporche di sangue rappreso.
Alzò il sopracciglio con disappunto quando si rese conto che mi ero pisciata addosso, ma non si diede pena d'asciugare. Con una lama affilata mi ferì a un braccio e cominciò a dipingere. Ansimava e grugniva mentre tracciava quelle macchie sulla tela. Era più spostato di quanto sospettassi: sembrava godesse nel creare, non mi sarei stupita se si fosse scopato la tela. Come feci a non urlare e a resistere, non lo so, se solo ci ripenso...
Mi slegò dopo qualche ora e cominciò a farneticare. Diceva cose del tipo: “Sei una privilegiata, tu stai rappresentando l'orrore. Io ne estraggo l'essenza e trasporto i sentimenti peggiori sul quadro. Sarai eterna per quello che rappresenti”.
Tra le lacrime gli chiesi ancora di Franco, lo supplicai di dirmi come stava. Il pazzo perse le staffe e rabbioso sibilò tra i denti: “Ma che sto a spiegarti? Sei solo una ragazzina insignificante. Non sei in grado di capire cosa sto facendo, la grandezza delle mie opere. Ti porto da quell'imbranato di tuo fratello, insieme vi farete buona compagnia”.
Mi ritrovai con Franco in uno stanzino così piccolo e umido che sentivamo il nostro stesso fiato condensare nell'aria. Lo abbracciai sanguinante e intirizzita. Rimasi così, stretta a lui, per un tempo indefinibile. Mi avvolse col suo giubbotto. Sentivo la sua voce, ma non comprendevo le parole; era preoccupato per me, solamente questo percepivo. A un certo punto mi addormentai o, forse, persi semplicemente i sensi.
Il giorno dopo gli raccontai tutto, gli narrai la follia e i deliri di cui ero testimone. Stavo finendo di descrivere il suo raccapricciante modo di dipingere, quando il rumore delle chiavi ci interruppe. Entrò sorridendo e gettò in terra un sacchetto con dei panini. In tono canzonatorio si rivolse a me: “Birichina, rendi la giacca a tuo fratello! Con tutto il bel guardaroba che ti ritrovi, hai il coraggio di rubare a Franco”.
Non avevo scelta: mi spogliai.
Lui riprese: “Brava bambina, ora torni a posare per me”.
Franco provò ad opporsi, ma di reazione ricevette uno spintone accompagnato da una risata sarcastica. Mi teneva stretta per il braccio, mentre mi riportava nel suo studio dell'orrore.
Stette di nuovo a misurarmi, a posizionarmi perplesso in cento pose. Lo lasciavo fare, come se la mia anima fosse evasa lontano e tutto divenisse indifferente.
Di nuovo intinse il pennello nella mia carne e una strana luce brillava nei suoi occhi, mentre mi dipingeva.
Anche stavolta mi riportò da Franco. Il mio gemello mi accolse tra le braccia. Gli raccontai ogni dettaglio, tutta la mia paura. Ci addormentammo dopo poco. Non so per quanto tempo ci assopimmo: era sempre buio laggiù; il giorno e la notte non si distinguevano in quel limbo.
Franco volle provare a ritrarmi, era l'unico modo per sfidare quel pazzo e proteggermi dal suo sadismo. Avrebbe usato il muro, annerendolo con la fiamma della candela. Io invece trovai la tempera giusta, riaprendo il taglio che avevo sul braccio. Non voleva, nonostante la mia risolutezza. Ci misi parecchio a persuaderlo. La sua mano tremava, mentre intingevo il suo indice nella mia carne. Cominciò a tracciare i contorni del mio corpo sulla parete, prima di addentrarsi nei dettagli. Era una sagoma raggomitolata su se stessa quella che iniziava a prendere forma. Era il mio dolore che si spandeva sull'intonaco, erano i miei occhi esterrefatti a chiedere aiuto dal loro contorno rosso.
Fece un capolavoro, superiore a quanto avesse mai prodotto nostro padre. Quando costui lo vide, sussultò sorpreso. Scrutò mio fratello come se fosse un estraneo e poi gli strinse la mano complimentandosi per la qualità del suo lavoro. Il pazzo era indeciso su cosa fare, stava per portarmi via, ma repentino cambiò idea e con uno strattone mi spinse di nuovo nella stanza. Caddi per terra, non se ne curò. Se ne andò per tornare presto con un cavalletto e tutta l'attrezzatura per dipingere, fatta eccezione delle tempere.
Lasciò anche un piccolo taglierino, utile per procurare colore. Ma non fu necessario: proprio quel giorno mi arrivarono le mestruazioni, abbondanti come non mai.
Nell'arte di Franco c'era la nostra salvezza e l'unico sistema per esorcizzare la paura: il pittore si era trasferito in mio fratello, lui era diventato il nostro genitore. Franco era il padre buono che non ci avrebbe fatto del male. Intanto quello biologico veniva diverse volte al giorno a vedere le creazioni del mio gemello e lo portava ad ammirare le sue. Si rivolgeva solo a lui, trattandolo come un collega con cui avere uno scambio alla pari su valutazioni artistiche.
Per qualche giorno la tensione si allentò.