di Luce Dallombra
Paolo stava acquattato dietro
la porta di camera sua, l’orecchio teso a percepire il minimo rumore.
Erano soli in casa, presto
avrebbe sentito i passi di suo fratello Manuel sulle scale.
Quel rumore… uno dei tanti volti della paura.
Pensò ai compagni di scuola, che non sapevano nulla del
suo inferno, al contrario, pensavano fosse
un privilegiato, perché era il piccolo di casa, il cocco di mamma e
papà.
Il figlio bello. Serrò le
labbra in una smorfia di disgusto.
Ormai era solo questione di
tempo: ogni volta che i genitori li lasciavano soli, il copione si ripeteva con
lugubre esattezza.
Prima di uscire ripetevano le
solite, dovute raccomandazioni a suo fratello, il primogenito, mentre lui se ne
stava in disparte con gli occhi bassi:
“Manuel, noi andiamo”
“Sì, mamma”
“Mi raccomando, stai attento a
tuo fratello, vedi che non si faccia male.”
“Sì, mamma”
“E ricordati che sei il più
grande. Dai il buon esempio”
“Sì, papà”
Altro che buon esempio. Sapeva
che Manuel lo odiava, che l’aveva odiato subito, sin dal primo giorno, al di là
del vetro della nursery. Lo sapeva perché un giorno suo fratello gliel’aveva
detto. Alla nursery Manuel aveva ascoltato in silenzio i commenti di amici e
parenti: che bel bambino, che dolce, guarda le manine, i piedini…
Aveva ascoltato tenendo lo
sguardo fisso su di lui: se solo avesse potuto l’avrebbe ucciso all’istante,
senza pensarci un attimo. Invece aveva fatto dondolare la mano in quella di
papà, più forte, sempre più forte, finché i loro polsi non avevano sbattuto sul
vetro con un tonfo sordo che gli era esploso
nelle orecchie strappandolo al sonno.
Manuel gli aveva raccontato
come l’aveva visto spalancare gli occhi e la bocca, con un sussulto improvviso,
e come aveva annaspato con le mani in alto, nell’aria asettica dell’ospedale.
“Infermiera, cos’ha il
bambino?” aveva chiesto mamma
“Niente, signora, è un riflesso
condizionato”
Da quel giorno il “riflesso
condizionato” l’aveva perseguitato con implacabile costanza.
Non c’era niente che potesse
fare per mettersi al riparo dalla sua rabbia: aveva osato nascere dopo di lui,
mostrando al mondo l’esito di un’altra possibilità.
Una possibilità migliore della
prima. Imperdonabile.
La macchina di mamma e papà non
si vedeva più, neanche sporgendosi al massimo fuori dal balcone. Manuel pensava
a Paolo: se fosse stato appena un po’ più brutto, o più stupido, se avesse
avuto un piccolo difetto – le gambe storte, una voglia sfacciata in posti
inopportuni, le spalle curve – forse avrebbe potuto perdonarlo. Ma era più bello,
più intelligente, più simpatico. Più amato. Insopportabile.
Col passare del tempo - solo in virtù di un buon risultato genetico –
era diventato il prescelto, il preferito. Nessun merito, nessuna colpa. Un
semplice stato di fatto che ribadiva l’ingiustizia del mondo. E poi tutti quei
confronti. Com’è bravo Paolo. E quei discorsi…oh sì, il piccolo è molto più
calmo, un bambino dolcissimo, per fortuna sai, perché Manuel…
Manuel cosa? Questa mania dei
grandi di lasciare tutti i discorsi a metà.
Manuel era lui, ed era deciso a
fargliela pagare.
Paolo tremava: ecco il rumore
della paura, un avanzare metodico che preannunciava…cosa?
Tutto.
A volte la porta si spalancava
di colpo: Manuel, il suo fratello grande, lo fissava senza espressione, poi lo
colpiva allo stomaco senza una parola e se se andava. Altre lo scherniva
dandogli della femminuccia, dell’invertebrato, del cretino. Poteva continuare
per ore con litanie di insulti, ogni parola una frustata. Altre ancora sembrava
non vederlo: lo attraversava come l’aria della stanza.
Una volta gli aveva bruciato le
mani col ferro da stiro. Poteva riempire la vasca da bagno e tenergli la testa
sott’acqua fino a fargli scoppiare i polmoni, o premergli le lame del
trinciapollo sulla gola, guardandolo sbiancare con un sorriso sadico.
Conosceva tutto questo, ma
c’era di più: suo fratello non si limitava ad odiarlo.
A volte l’amava, di quell’amore
che divora l’altro per portarlo con sé, ma lui non sapeva mai – per tutta la
durata dei passi – se sarebbe stato l’amore o l’odio a varcare la porta.
La maniglia si abbassò. Manuel
lo guardava in silenzio. Poi cominciò a sfotterlo, raccontando una strana
storia di zingari. Grazie agli zingari, avrebbe potuto trasformarlo in un
verme, e non per modo di dire.
“Che ne dici, eh? Paolino lo
schifino, sparito è il bel bambino! Ti piace la filastrocca?”
Paolo pensò che il desiderio
del fratello di sbarazzarsi di lui l’avesse portato alla pazzia, ma d’un tratto
ricordò gli zingari accampati vicino casa.
Erano arrivati nella notte, poco
tempo prima. I carrozzoni sbilenchi che ora punteggiavano la radura abbandonata
davano un’aria sinistra all’intera zona. Paolo non si sarebbe mai avvicinato al
campo. Immaginava gli sguardi
inquietanti degli zingari, le loro unghie sporche.
Manuel, al contrario, affascinato dal diverso, aveva subito accettato l’invito della vecchia
rugosa che lo fissava oltre la rete.
“Vieni, ragazzo – la voce
arrochita emergeva dal mucchio di stracci – sei stanco, vero?”
Non aveva risposto, distratto dalla presenza di due grossi cani
che lo annusavano curiosi. Adorava i cani, specialmente quelli grossi, ma sua
madre non gli avrebbe mai permesso di tenere neppure un bassotto. I cani
sporcano, sbavano e lasciano peli in giro, e non c’era niente da discutere.
Paolo non si interessava di animali, a parte i fossili e quelli dei documentari
televisivi, che non puzzano.
La voce della vecchia l’aveva
riscosso dai suoi pensieri. Che voleva quella da lui? E poi, di che stanchezza
stava parlando?
“Intendo la stanchezza dell’anima,
ragazzo mio” aveva detto lei, come
se se sapesse leggergli la mente.
Manuel l’aveva guardata con un
sorriso che voleva essere di scherno, ma gli occhi attenti della donna lo
mettevano a disagio. Aveva accarezzato i cani con fare noncurante, e poi si era
girato per andarsene, ma la voce della vecchia era ancora lì.
“Puoi usare il tuo dolore per
causare altro dolore, oppure puoi decidere cosa farne”
“Sarebbe a dire?” aveva chiesto
senza fermarsi
“E’ semplice: trasforma la
sofferenza e la causa del tuo dolore in qualcos’altro. Puoi farlo, se vuoi.”
Si era fermato alzando la mano
come per ribattere qualcosa, ma subito dopo l’aveva riabbassata per ficcarsela
in tasca con un gesto rabbioso. Ne aveva abbastanza, di quei deliri.
Ma le parole della zingara non
lo abbandonarono. Continuò a rimuginare sul loro possibile significato finché,
all’improvviso, capì.
Era stato a quel punto che
aveva fatto irruzione in camera di Paolo. Poteva trasformare la sofferenza in
qualcos’altro, così aveva detto la vecchia, e sebbene non ci fosse
apparentemente alcuna logica in quello che gli era apparso tanto chiaro, non
dubitò di poter trasformare suo fratello in un verme.
Paolo se lo vide addosso
all’improvviso: avanzava verso di lui brandendo un barattolo di vetro.
Cosa voleva fargli?
Arretrò d’istinto ma, prima di
poter capire da cosa guardarsi, precipitò
dentro ad un orrore trasparente e vuoto.Intorno a lui pareti enormi e trasparenti come non ne aveva
mai viste.
Era nel barattolo.
Realizzò – terrorizzato – che
l’ombra gigantesca sopra di lui era la mano di Manuel che metteva il coperchio.
Ora i rumori giungevano
ovattati, e le immagini del mondo esterno completamente distorte.
Vide l’orrore del suo corpo:
non aveva più gambe, né braccia, e strisciava.
Non aveva più voce, ma la sua
coscienza era intatta.
Era lui nel corpo di un verme,
di tutti gli animali quello che gli faceva più ribrezzo.
Intanto Manuel si passava il
barattolo da una mano all’altra con un enorme senso di trionfo. Finalmente suo
fratello aveva l’aspetto che meritava. Così bravo, così silenzioso, così
compiacente.
Così verme.
Era stato facile. Appoggiò la
“cosa” sulla scrivania chiedendosi che farne. Dopo un po’ tornò a guardarlo.
Vide che si contorceva nel tentativo di risalire lungo le lisce pareti di vetro
e gli fece pena, cosa che lo mandò su tutte le furie.
Come poteva fargli pena? Gli
aveva rovinato la vita.
Però, vederlo ridotto
così….magari aveva fame. Magari sapeva che avrebbe potuto schiacciarlo come un
niente.
Chissà che terrore.
Aprì il barattolo.
Paolo vide un occhio enorme
affacciarsi all’imboccatura della sua prigione, poi un dito tre volte più
grosso di lui lo raccolse e lo posò sul freddo coperchio di metallo.
“Stai male, eh? - il volume della voce di suo fratello lo
sovrastava, come tutto il resto – pensa che potrei buttarti nel cesso e tirare
lo sciacquone. Ma non lo farò. Sei sempre mio fratello, e mi fai pena, conciato così. Pazzesco, eh? Però te lo
meritavi proprio, tanto per capire come ci si sente, da nullità…”
Manuel gli raccontò le cose che
l’avevano fatto soffrire fin dal giorno in cui era nato.
Gli disse della visita al campo
nomadi, dell’incontro con la vecchia e tutto il resto.
No, ripeté, non l’avrebbe
buttato nel cesso. In fondo non era colpa sua, se i genitori lo preferivano a
lui. Lo fissò con un ultimo sguardo intenso e consapevole e lasciò la camera.
Paolo si ritrovò al centro
della stanza. Completamente stordito, ma nuovamente padrone del suo corpo,
gettò uno sguardo al barattolo di vetro sulla scrivania.
“Questa – pensò – è l’ultima
infamia che sono stato costretto a subire.”
Se era di dolore che si
trattava ne aveva anche lui. Da vendere.
Ormai mancava poco al rientro
dei genitori. I due fratelli si evitavano, ognuno perso nei propri pensieri.
Manuel si accorse che il
fratello stava uscendo, ma non chiese nulla. Lo cercò qualche minuto dopo, ma
sembrava scomparso. Il giro di ricognizione finì in giardino. Non era nemmeno
lì, che andasse al diavolo, pensò scrollando le spalle.
D’un tratto il fruscio di un cespuglio
attirò la sua attenzione. Pieno di meraviglia vide, immerso nel verde, un cane
grande e bellissimo dal pelo bianco, che lo guardava scodinzolando bonario.
Come era arrivato lì? Gli corse
incontro ridendo e chiamandolo a gran voce:
“Qua, bello, qua, vieni a
giocare!”
Quando s’inginocchiò per
abbracciarlo il cane balzò in avanti e l’azzannò alla gola.
L’ultima immagine di Manuel
furono le grosse zampe bianche che lo inchiodavano a terra, e il rosso del
sangue sui denti che gli
squarciavano la pelle.
Cadde riverso sull’erba,
con la testa all’indietro quasi staccata
dal corpo.
I suoi occhi ,
spalancati e lucidi, erano ancora
pieni di sorpresa.
L’urlo della madre dei due
fratelli lacerava la casa. Il padre, in giardino, stringeva a sé il corpo del primogenito in un abbraccio
scosso da singhiozzi convulsi.
La polizia trovò l’altro
ragazzo nella stanza, in apparente stato di shock.
Teneva gli occhi sulla
scrivania, dove c’era un barattolo di
vetro vuoto, e continuava a rigirarsi
tra le mani un ciuffo di peli
biancastri.
Alle domande su cosa avesse
visto rispose sempre allo stesso modo: erano stati i cani degli zingari.
Non aveva potuto farci niente.
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