30/11/15

IL GIORNO DEI NEMATODI(5): Egoismi genetici di Rubrus & Weird League

                                         

                                          
                           - illustrazione di Antonio Calzone (Big Tony) -

Poco dopo, all'interno dell'acquedotto, Tania e Walden stavano consumando il secondo di due conigli con verdure.
Dinamite Bla aveva finito da un pezzo e li osservava lisciandosi la barba. Aveva detto pochissime parole, fino a quel momento, tranne, ogni tanto “Lo sapevo che il casino sarebbe successo ugualmente”.
I ragazzi non avevano commentato, troppo occupati a spolpare i conigli accorgendosi, anche se solo quando erano giunti a metà del secondo, di quanto fossero affamati.
A un certo punto Walden, dando di gomito alla sorella, le aveva indicato, in un angolo della stanza – una specie di rifugio di emergenza sepolto nelle profondità dell'edificio tecnico dell'acquedotto – un arco con una faretra.
Logico. Se Dinamite Bla avesse usato il fucile lo avrebbero sentito e non era mai successo. Si chiesero da quanto tempo l'uomo abitasse laggiù. Quella barba era davvero lunga.
«Bel casino» disse di nuovo l'uomo.
«Conosce i nostri genitori?».
Dinamite annuì «Sicuro. Avevamo deciso che vivessero isolati. Eravate piccoli ed era necessario che potessero prendersi cura di voi. Per questo stavano separati dal resto del gruppo e limitavano i contatti al minimo».
«Quale gruppo? Quali contatti?».
«Meno si sa è meglio è, credimi, figliolo» osservò le ossa nei piatti «Comunque siete diventati grandi. Be', abbastanza. La fame non vi manca di sicuro».
«Ci vuole spiegare, maledizione?».
«Meglio vivere in piccoli gruppi isolati. E meglio non sapere dove sono gli altri. Loro non amano avventurarsi nella foresta: sanno che non hanno unità a sufficienza per perlustrarla tutta e che sarebbe solo uno spreco di tempo. Certo, ogni tanto succede. E in questo caso se un gruppo non sa dove si trovano gli altri non può rivelarlo. Io vivo solo... adesso. Comunicavo coi vostri genitori con messaggi lasciati appesi a un pilone del vecchio ponte (uno dei posti proibiti comunicò Walden a Tania toccandosi la guancia con tre dita) ma non ho mai saputo dove foste voi. Molto vicino, a quanto pare. Spero non troppo. Li hanno presi, vero? Quando?»
«Questo...» fece per dire Walden, ma Tania lo zittì «Meglio non saperlo, no?».

Dinamite sogghignò «Impari in fretta, ragazzina. Ma mi serve per sapere quanta strada avete fatto e quanto loro potrebbero essere vicini. È per la vostra sicurezza. Be', anche per la mia».
Tania scosse la testa energicamente. «No. Non se non ci racconta tutto dal principio. A cominciare dal Progetto Goodchild».
Dinamita Bla prese a strofinarsi la barba. Proprio come Walden pensò Tania solo che lui non ce l'ha barba, non ancora. Forse non è un caso. Forse abbiamo già conosciuto quest'uomo.
«Potrei abbandonarvi nella foresta» disse.
«Dopo averci accolti in casa sua e dopo averci dato da mangiare? Dopo che sappiamo dove si trova? Non credo» intervenne Walden.
L'uomo sospirò. Evidentemente, sapeva di poter combattere con una ragazza ostinata, ma due...
«Ok. Tanto tutta questa segretezza ha funzionato solo fino a un certo punto. Conoscete la faccenda delle api, ragazzi?».
Walden lo guardò offeso «Sappiamo come nascono i bambini!».
«Non mi riferivo a quello. Sapete che tra le api è solo uno l'individuo che si riproduce, la regina. E sapete anche che tutte le altre api sono sterili, almeno finchè non serve una nuova regina. Quanto ai maschi... be', secondo me c'è un perchè se li chiamano anche “cacchioni”. Comunque sapete che le api sono pronte a morire pur di difendere l'alveare e la regina, vero?»


«Fanno come i kamilaze» rispose Walden, ancora offeso.
«Certo, le api sono un esempio di altruismo estremo, oltre che di molte altre cose... ma perchè lo fanno? Ora devo farvi una premessa, ragazzi. Io non sono esattamente un esperto di queste cose. Mi occupavo della manutenzione dei macchinari, al Progetto Goodchild, quindi quello che vi dirò sarà un po'... approssimativo, ecco. Comunque torniamo a bomba. Forse non è il momento adatto per ricordarlo, ma... tutti dobbiamo morire, vero?»
“Non voglio morire” aveva detto qualcuno pensò Tania chi? Walden? E quando? Quella mattina? No, doveva essere stato qualcosa come un milione di anni fa.
«Comunque, l'unico modo che abbiamo di non morire, non del tutto, è di trasmettere un pezzetto dei nostri geni. Ognuno di voi è il 50% di vostra madre e il 50% di vostro padre».
«Aria di famiglia» disse Tania.
Dinamite annuì. «Però non è una gran consolazione, vero? I geni sopravvivranno anche, ma noi non ce ne accorgiamo proprio. Tirate le cuoia, capitolo chiuso, usate la metafora che preferite. Per noi, come noi concepiamo noi stessi, non cambia niente. Tuttavia, per quanto imperfetta sia questa forma di immortalità, ciascun genitore è disposto a sacrificare la vita per consentire la sopravvivenza del 50% dei suoi geni. Proprio come un'ape».
Si grattò di nuovo la barba. Al Progetto Goodchild pensò Tania potremmo averlo visto lì, anche se non ci ricordiamo. Lui c'era, papà e mamma c'erano. E probabilmente c'eravamo anche noi.

27/11/15

APOLOGIA DI EMILIO SALGARI/ LA FORMIBABILE CASSETTA DI EMILIO SALGARI

                             

Emilio Salgari fu, prima di ogni considerazione, uno che visse come voleva vivere, uno che visse scrivendo e viaggiando nell’avventura senza la seccatura dei bagagli, un potente sciamano (riconosciuto solo da noi eterni ragazzi) che praticò l’esorcismo della morte attraverso la mitografia di una vita più vitale della vita.
Nominando e creando la leggendaria ferocia di Sandokan, la rapidità dei prahos d’assalto, il lusso aromatico della vegetazione malese, l’anarchica autosufficienza libertaria della parola “Mompracem!” scrisse della propria vita e di sé, mescolando la realtà e l’arte, e facendo vivere loro un’ unica esistenza, inestricabile, come le liane della crudele Sipo Matador nelle impenetrabili foreste giavanesi.
Chi altri può, in tutta onestà, oggigiorno, dire di fare altrettanto?
Dopo Pasolini, l’ultimo grande, chi è capace nel Bel(?)Paese d’incarnare nella propria vita la sua arte e il suo pensiero?
Non sto parlando dei politici, una triste banda di venditori di tappeti, aspirapolveri, pulci e acari d’ogni tipo, ma degli artisti, dei narratori, dei poeti, dei fumettari, degli uomini e delle donne del cinema, della danza, di un certo tipo di televisione e così via.
Dov’è un Salgari tra loro?  
Salgari visse la pienezza di una vita artistica, ricolma, ribollente, tracimante direi, d’immaginazione, di metafore e di analogie, fuori dal comune: questo lo condannò in vita a subire le conseguenze del vizio capitale più diffuso in Italia: l’invidia piccolo borghese.
Gli adolescenti (i lettori che riconobbero in vita lo sciamano) scrivevano appassionate lettere a Emilio in cui dicevano:
“Il mio professore mi consiglia di non leggere i Suoi libri, perché dice che scaldano la testa”;
“I nostri padre e le nostre madri ci lasciano leggere poco i Suoi libri, perché dicono che eccitano i nervi”.
Tutti i mediocri, tutti quelli che avrebbero voluto amare conturbanti principesse malesi e correre su brigantini in fiamme all’assalto dei tiranni, ma cui mancò sempre il coraggio di sfilare mutandine e mulinare spadoni insorsero, in una gara di meschino livore, demolendo (o cercando di demolire) il mito salgariano entusiasticamente urlato dai loro figli.
Solerti professorini accademici,  editori bottegai e truffaldini, piccoli borghesi incarogniti offrirono uno spettacolo pietoso; di iene intorno a una carcassa: scrissero che Salgari era puerile rispetto a Verne, il palloso pedagogo della scienza, uno scribacchino superficiale e provinciale!
Provinciale Salgari! Conosciuto anche dalle ragazze e dai ragazzi di tutta Europa e di mezzo mondo!
E così, mentre Salgari veniva derubato dei proventi delle sue immani fatiche editoriali, cominciò quelladamnatio memoriae, quella congiura quasi generale per ridurlo a “scrittore ludico per l’infanzia”.
Ma dietro a quella cospirazione compiuta da miserabili snob dell’incapacità creativa, c’è qualcosa di più e di peggio, rispetto al solito trucchetto delle tre carte operato da cattedratici, bottegai e santoni del pensiero unico.
Questo qualcosa d’orribile è un’invidia feroce e rovente: l’invidia degli omuncoli tediosi e delle donnucole tristanzuole, tutti mediocri condannati a relazioni affettive ed erotiche squallide e proterve, a vite servili e grigie, a un’esistenza in bilico tra la genuflessione per la pagnotta e la rabbia per la propria immagine, restituita implacabilmente dallo specchio.
Come avrebbero potuto non odiare Salgari, uomo libero fino alla sfrontatezza, protagonista della propria vita e dei propri eccessi, come avrebbero potuto comprenderlo in fondo questi omogeneizzati del conformismo, questi forzati del consumismo, costretti, per mantenersi lauti stipendi e onori accademici a riscrivere la storia della letteratura ad uso e consumo dei propri sponsor e delle proprie lerce bancarelle?
E, infatti, nonostante che Salgari sia stato un grandissimo scrittore e abbia influenzato direttamente tutta la narrativa fantastica italiana successiva (Landolfi, Manganelli, D’Arrigo, Bufalino, Arpino, Buzzati), sulle antologie egli compare come una macchietta, un pellegrino prima veneto e poi torinese che bambineggiava vestito da pirata, come una specie di pantomima da compatire all'Asilo Nido.
In questo trasformare l’eroismo (Salgari fu un ardito in ogni fibra del suo essere) in prosopopea retorica e la potenza dell’immaginazione in patologia mentale, c’è anche e soprattutto l’odio del mediocre per il gigante, del perdente per il creatore di possenti metafore e sublimi analogie immaginative, dello schiavo per l’uomo libero.
Così, dietro la riduzione di Salgari a bamboccio, non c’è solo miseria critica e intellettuale, ma anche e soprattutto, miseria umana.
E allora, prendo in mano il mio berretto, tiro per la mia strada salgariana, e come quelle migliaia di ragazze e ragazzi il giorno del suo funerale, lo tiro in aria lanciando il nostro grido di battaglia:
“Evviva il Capitano Salgari!”:

LA FORMIBABILE CASSETTA DI
EMILIO SALGARI
 

“Se mi dovesse succedere qualcosa, o il fuoco o l’inondazione, salvate quella cassetta. Là c’è la mia ricchezza.”
Emilio Salgari al figlio Omar.                                                   
                                                 - illustrazione di Aldo Di Gennaro -

                                                                             I
Emilio Salgari, la Tigre della Malesia, uscì di casa con i figlioletti Nadir, Fatima, Romero e Omar.
Portavano tutti delle spade di legno alla cintola e mentre Omar e Nadir duellavano con i loro nomignoli coniati per l’avventura, Tremal-Naik e Giro-Batol, Emilio urlava a sua moglie Ida:
— Donna, non sappiamo quando torneremo per cena! Gli eroi sanno quando salpano ma non quanto ritornano!
Mia Aida, solo una cosa è certa: non ci faremo mai mettere ai ferri, libertà o morte, vero miei prodi?
—  Sì Capitano! Libertà o morte! Non saremo mai schiavi di nessuno!
Era in realtà una scenetta convenuta per non far scemare la tensione giocosa e gioiosa della pericolosa spedizione.
Sarebbero tornati alle otto in punto come sempre.
Marciarono per un’ora, scendendo al fiume Po e poi cominciarono a risalire la collina.
Il capitano Salgari, intanto, così parlava ai figli:
— Ecco…supponiamo che ora io vi conduca verso un paese ignoto, il terribile reame dei Thughs, i feroci strangolatori indiani.
Siete pronti a seguirmi fino alla morte?
—  Sì, Capitano!
—  Ascoltatemi Tremal-Naik, Kammamuri, Jaira e Giro-Batol!
                                                  

26/11/15

CAVITA'

di GisElla

Erano anni che aspettavo questo momento e ora, che sono sulle tracce di mio fratello, non so cosa fare. È bastato un dipinto buttato sul web a farmi tornare in mente Franco e il suo stile inconfondibile. Anche qui sembra che l'orrore abbia preso forma e il sangue scorra sull'immagine, come il prezzo di un grande sacrificio o di una passione letale. La firma nell'angolo è praticamente illeggibile, minuta e accartocciata su se stessa, proprio come la sua. Quale prova in più posso volere sulla paternità dell'opera? Non c'è dubbio che si tratti di lui, l'ho ritrovato. Non è stato facile da quel quadro risalire a un blog personale contenente anche un indirizzo mail, ma dovevo trovare un modo per mettermi in contatto con lui.
Sono giorni che sto a fissare quella sorta di pulsante virtuale, per aprire con un click il quadrato in cui inserire un commento. Mi sono passati fiumi di parole per la testa, senza riuscire a buttar giù una sola frase.
Sono due notti che mi rigiro nel letto e il fiato si fa corto. Piango, rido e poi mi lascio andare alle note più nere che possa ascoltare. La voce di Rozz Williams mi culla nella sua maledizione, mi fa accarezzare di nuovo i tempi passati, in cui mio fratello era con me. Eravamo un tutt'uno noi due: talmente uniti, fatti e bevuti, con la nostra autodistruzione e quell'eco lontana d'angoscia. Così estranei a questo mondo, non eravamo destinati a durare. Forse per questo ci siamo separati a un certo punto, senza lasciare tracce, eliminando ogni possibilità di poter tornare indietro.
Ci somigliavamo molto anche nell'aspetto. I nostri capelli corvini ricadevano sulle spalle con disinvoltura, erano incolti e ribelli come i nostri ideali che si diramavano caotici, simili a fili arruffati. Intanto, in automatico, arrotolo sull'indice una ciocca, come eravamo soliti fare allora. Mi studio nello specchio. Nelle iridi chiare rivedo l'inquietudine e l'abisso emotivo di Franco; è ancora con me, per quanto il tempo crei un confine tra la vita trascorsa in comune e il mio oggi solitario.
Sono quegli occhi a farmi decidere a scrivere, sono le sfumature di grigio a confondersi con i fumi dei ricordi. Non ho scelta: devo contattarlo. Dopo tanto indugiare, in meno di un minuto, butto giù due frasi: “Sono Claudia. Sì, sono proprio tua sorella”.
Lascio il computer acceso e continuo ad aspettare una sua risposta che, forse, non arriverà mai. Non mi sono mai sentita tanto sola come in quest'attesa. Un freddo glaciale mi penetra dentro fino al cuore.
Passo un paio di giorni adagiata nel buio, avvolta da musica cupa (i nostri vecchi Christian Death).
Solo il rosso del sangue colora le mie ore vuote. Sputo i grumi che circondano la cavità lasciata dal mio molare marcio. Anche ora, che il dente non c'è più, soffro; anzi pare proprio che si sia aperta una voragine nel profondo e ciò che vi era sepolto, è libero di venire a galla.
Sono matta? Un dente non c'entra un fico secco con gli orrori del passato? Se lo dicessi al mio dottore, temo che mi farebbe ricoverare nuovamente, ma ho ben imparato a tenere i pensieri per me, a fingere di essere normale, per quel che può valere questa parolina.
Dopo due giorni senza risposta, la mia ossessione si allenta. Mi sento abbandonata anche da mio fratello, quasi spero di non sentirlo più. Non voglio soffrire, desidero solo allontanarmi da quel senso di rifiuto che mi tortura ogni volta che si presenta.

Mi sto quasi assopendo, quando un campanello mi avvisa che è arrivata una mail. Mi desto di colpo. Per la quarta volta in questi giorni, corro al computer per vedere chi sia il mittente. Mi continuo a ripetere come fosse un mantra: “È solo maledetto spam”, eppure il cuore non può fare a meno di sperare. Quando leggo il suo nome mi sento mancare, mi devo appoggiare alla sedia per non cadere. Dopo vent'anni una buona fetta del mio passato, di ciò che sono stata, mi torna indietro tramite posta elettronica, attraverso parole che scorrono su un fottuto monitor.
Franco non è stato coinciso come me, nella sua lettera mi rievoca eventi remoti mescolati a sprazzi di presente. Anche lui ha tolto il dente ventisei, è incredibile come le analogie tra noi si susseguano. Ha chiuso con alcol, droghe e da tre anni ha smesso persino di arricchire le multinazionali del tabacco. Stupefacente il nostro sincronismo pure in questa svolta sulla ricerca di una vita sana. Adesso sulla tela usa solo tubetti di colore, vi stempera gli orrori personali senza ferirsi o tagliare qualcuno. L'unica eccezione è stata dopo l'estrazione del dente; si è trovato nuovamente a dipingere col sangue ancora vivo. Rimango esterrefatta dal parallelo, se penso che la stessa notte io mi sono spogliata sotto la luce sinistra di un candelabro, proprio l'illuminazione che prediligeva Franco, e mi sono spalmata la mia saliva rossa per tutto il corpo. Sapevo che stavo compiendo qualcosa di assurdo, che quel sangue m'inebriava malevolo come una bottiglia di vino corposo. Non sono riuscita a fermarmi e la mattina la mia pelle era completamente colorata da chiazze di sangue secco. Mi sono messa davanti a uno specchio e sono rimasta tutto il tempo così: immobile, immune al freddo o a qualsiasi altra cosa. Non me lo sono ancora lavato di dosso; ma ora che so dell'esistenza di una nuova tela, posso pulire la mia pelle, sciogliere questo marchio perverso che mi ostino a conservare.
Cosa avrà dipinto Franco? Che si sarà liberato dal profondo della sua gengiva? Ha descritto tante cose nella mail, ma nemmeno un cenno a questo importante dettaglio. Un tempo mi avrebbe raccontato ogni centimetro del suo quadro, affinché capissi il valore di ogni singola goccia ematica. Adesso, invece, sull'argomento c'è solo silenzio; ha paura come me di quello che potremmo resuscitare. Ma non credo si possa mettere un piede nel passato e poi fare finta di niente, ormai siamo costretti ad andare fino in fondo. La cavità è aperta e non si chiuderà da sola.
Faccio una doccia e lavo via quel colore che si era appiccicato sul mio corpo, riportandomi ai tempi lontani, a quell'adolescenza macabra e ribelle.
Scrivo a Franco, senza preamboli gli domando dell'immagine che è emersa dal sangue. Temo di conoscere la risposta, ma deve essere lui a dirmelo, a ricordarmi i miei ritratti. Ho sempre trovato odioso posare e al contempo eccitante, quanto può esserlo una sfida contro la morte.
Arrossisco se ci penso, ma sono stata tante volte la sua musa, come era solito definirmi. Mi sono sforzata di vederlo alla stregua di un gioco; invece era una sorta di esorcismo, una specie di rito per sfuggire al pericolo, per cancellare l'abominio a cui siamo sopravvissuti.
Mi risponde tempestivo, eludendo la domanda, aggrappandosi con tutte le forze a un'illusoria realtà che non ci appartiene. Mi narra distrattamente delle bravate di una volta, per passare con disinvoltura all'attuale appuntamento col dentista. A proposito, mi fa sempre male la gengiva, esce tanto pus. Ho la faccia gonfia, devo andare a fondo di questo marciume, scavare fino a debellarlo. Anche se dovessi farlo da sola, se lui non volesse aiutarmi, ricostruirò tutto.
Ma cerco di andare per ordine e raccontare dapprincipio la nostra storia. Non voglio lasciare nell'oblio nemmeno un dettaglio. Spremerò tutta l'angoscia che c'è in quella cavità, per portarla alla luce e farla incenerire, come la carcassa di un vampiro baciata dal sole. Scriverò tutto caro fratello, farò resuscitare i nostri ricordi per liberarci, una volta per tutte, del nero che ci sovrasta. Giusto un po' di musica ad accompagnare la stesura della lettera. Lascio partire Cavity e sono pronta.
Sono vissuta in simbiosi con Franco sin dalla più tenera età, dicono che l'infanzia sia un periodo innocente e spensierato, ma di allora ho in mente solo gli incubi che facevo. Mi svegliavo di notte, circondata dai brividi, e mi infilavo nel suo lettino. Dormivamo poco, come se una minaccia incombesse su di noi; poi rammento solo il buio con la sua oscurità assoluta. Non ho bei ricordi di quella che dovrebbe essere una fase gioiosa dell'esistenza. No, per niente.
Non posso scordare Zio Rinaldo che era molto legato a me e mi viziava in maniera indecente. Tutte le estati, gli zii si occupavano di noi, come se fossimo stati i figli che non avevano mai avuto.
“C'è aria salubre qui e i bambini ne hanno bisogno” soleva ripetere mio zio; ogni occasione era buona per tenerci da lui.
La casetta era proprio sulla spiaggia. Anche con le finestre chiuse il rumore delle onde si propagava in ogni angolo, non mi abbandonava mai.
Non amavo stare in casa. Preferivo trascorrere la giornata al mare, immergermi nella sua dimensione sconfinata. Volevo andare sempre più lontano col piccolo salvagente che mi teneva a galla, stavo così bene dentro l'acqua, mi sembrava di perdermi nell'infinito. Tra le onde ci sono i momenti più belli che conservo di quegli anni, i pochi felici che si affacciano alla memoria.
Lo zio morì giovane; eravamo alle medie l'ultima volta che andammo da lui. Nonostante tutte le attenzioni che aveva per me, non piansi per la sua scomparsa, ma temetti soprattutto di non rivedere più il mare.
Per fortuna, con me c'era Franco a consolarmi. A sostituire l'immensità dell'azzurro.
Crescendo, stavamo sempre più per conto nostro; c'era qualcosa di malsano nella nostra famiglia. Con qualche bottiglia e un po' di roba, sapevamo evadere del tutto da quella stramba normalità casalinga. Per noi non c'era niente di più naturale che avere un padre pazzo e imprevedibile. Stavamo sempre attenti ai suoi umori altalenanti e al grado d'ebbrezza in cui si trovava. Lui era un artista famoso e al contempo un genitore ignobile: sensibile solo per se stesso, folle come pochi e a tratti violento. Noi ci eravamo abituati anche se, a differenza di nostra madre, non facevamo finta che fosse diverso. Lui, grande pittore rinomato, firmava autografi e noi ci vergognavamo di lui, temendo le sue scenate eclatanti. Che coraggio aveva a criticare i nostri giubbotti di pelle o il mio rossetto nero. Era l'essere più dissoluto e menefreghista che abbia mai conosciuto, come poteva rimproverarci qualcosa?
La mamma era diversa: provava a prendersi cura di noi, ma era così distante, talmente lontana dalla realtà che non si poteva comunicare con lei.
Ma non voglio perdermi in critiche o rancori personali, perché è quella notte che voglio rammentare. Mi riferisco alla volta che tornammo a casa ubriachi e sentimmo lamenti provenire dalla cantina. Era molto tardi e barcollavamo. Scendemmo per quelle scale ripide, fino alla porta chiusa. Una voce roca si mescolava a quel pianto. Scrutai dalla serratura e vidi nostro padre che dipingeva. C'era una donna legata al letto, era coperta di rosso. Lui intingeva il pennello nella sua carne e col suo stesso sangue la ritraeva. Che orrore se ci ripenso, m'illudevo di aver cancellato tutto, invece quell'immagine è di nuovo dinanzi ai miei occhi.
Non riuscivo a credere che quel pazzo potesse arrivare a tanto. Presi la mano di Franco e la strinsi con veemenza. Attenta a non fare rumore, non avevo altro mezzo per esprimere il mio panico.
Anche mio fratello guardò quell'abominio, poi d'impulso mi strattonò via. Salimmo di corsa le scale per tornare a un'atmosfera casalinga normale.
Andammo in cucina per scolarci una caffettiera grande; mandammo giù quel liquido amaro, senza un filo di zucchero per addolcire la paura. Dovevamo ripigliarci da quanto avevamo tracannato, era necessario che fossimo lucidi. Bisognava capire cosa fare. Passammo la notte svegli, vagliando mille soluzioni: da un'incursione nel seminterrato per salvare la donna, a una fuga da casa e dalla perversione che ci circondava. Se fossimo scappati, non avremmo avuto un solo luogo sicuro in cui rifugiarci e nemmeno sapevamo dove trovare la chiave per liberare la prigioniera. Avremmo, forse, potuto rivolgerci alla polizia, ma non ci fidavamo degli sbirri e, poi, ci sembrava un'azione pericolosa: lui si sarebbe certamente vendicato.
La mattina ci scoppiava la testa, dovevamo dormire. Ci calammo un paio di roipnol ciascuno, giusto per recuperare le forze con un buon sonno. Il nostro letargo durò ventiquattr'ore. Nostra madre provò a chiamarci, ma desistette dopo qualche insulto e un dito medio rivoltole contro. Ci lasciò nel letto sfatto di Franco, dove ci eravamo annodati l'uno all'altro come due bambini spaventati. Pareva, che in quello stare insieme, potessimo proteggerci meglio.
Ci facemmo una riga di speed appena svegli, giusto per azionare il cervello e decidere sul da farsi. Un po' di polvere ci aveva snebbiato la mente, ora sapevamo come agire: non restava che salvare la modella e poi darci alla fuga.
Non avremmo mai trovato la chiave dello stanzino in cui era rinchiusa, perciò dovevamo scassinare la serratura. L'avevamo già fatto una volta, quando volevamo fare una festa in una casa abbandonata con dei nostri amici. Non era stato difficile lì e i serramenti mezzi marci ci avevano aiutato parecchio.
Aspettammo che nostro padre uscisse per delle commissioni. Dopo averlo visto salire in macchina, scendemmo giù con la cassetta degli attrezzi.
Sbirciai dalla toppa: la vittima, oltre ad essere legata, aveva del nastro adesivo sulla bocca. Tremava. Era nuda in quell'umido stagnante, tutta coperta di sangue, del suo sangue.
Lui, però, rientrò quasi subito; forse aveva scordato qualcosa nel suo studio sotterraneo oppure aveva mangiato la foglia. Ci sorprese così, dinanzi a quella maledetta porta, come due scassinatori dilettanti.
Franco provò a colpirlo con il piede di porco, ma quel bastardo era agile e scansò il colpo. Rideva come un pazzo. C'era qualcosa di grottesco in quella scena se ci ripenso adesso. Noi che fuggivamo spaventati e nostro padre, tremendamente divertito, che ci correva dietro.
Ero sulle scale, quando mi acchiappò. Mi afferrò per una caviglia e io caddi di faccia, sbattendo contro lo spigolo dello scalino. Sentii il sangue caldo uscire dalle labbra e in bocca i pezzettini di un dente frantumato. Piangendo implorai mio fratello di scappare via veloce, almeno lui doveva salvarsi. Il mio frignare innervosì quel mostro che mi colpì con furia alla nuca. Persi i sensi.
Mi svegliai nel buio, circondata da orrore invisibile. Ero legata a un letto, imbavagliata e completamente nuda, percorsa da brividi violenti. Mi venne in mente la donna torturata; il terrore mi attraversò tutta quanta, fino alla vescica, e l'urina cominciò a scorrere, scaldando, per un momento, il culo e le cosce. Non vedevo niente e nemmeno potevo muovermi, chissà dov'era il mio gemello. Pregai tanto che almeno lui fosse libero. Rimasi così immobile al freddo. Il tempo non aveva più senso, mi sentivo appesa al vuoto. C'era solo da aspettare che giungesse il mio destino.
Il fato arrivò, annunciato da uno tintinnio di chiavi. Un candelabro recava quelle flebili e calde fiammelle che portavano la luce. Mio padre mi scrutava serio, studiava le mie forme e la mia espressione. Mi fece cenno di stare in silenzio, mentre mi toglieva il bavaglio. Sussurrai sottovoce il nome di Franco, ma lui tacque ostile. Non si curava di me: ero diventata un semplice oggetto da dipingere. Ripulì le mie labbra sporche di sangue rappreso.
Alzò il sopracciglio con disappunto quando si rese conto che mi ero pisciata addosso, ma non si diede pena d'asciugare. Con una lama affilata mi ferì a un braccio e cominciò a dipingere. Ansimava e grugniva mentre tracciava quelle macchie sulla tela. Era più spostato di quanto sospettassi: sembrava godesse nel creare, non mi sarei stupita se si fosse scopato la tela. Come feci a non urlare e a resistere, non lo so, se solo ci ripenso...
Mi slegò dopo qualche ora e cominciò a farneticare. Diceva cose del tipo: “Sei una privilegiata, tu stai rappresentando l'orrore. Io ne estraggo l'essenza e trasporto i sentimenti peggiori sul quadro. Sarai eterna per quello che rappresenti”.
Tra le lacrime gli chiesi ancora di Franco, lo supplicai di dirmi come stava. Il pazzo perse le staffe e rabbioso sibilò tra i denti: “Ma che sto a spiegarti? Sei solo una ragazzina insignificante. Non sei in grado di capire cosa sto facendo, la grandezza delle mie opere. Ti porto da quell'imbranato di tuo fratello, insieme vi farete buona compagnia”.
Mi ritrovai con Franco in uno stanzino così piccolo e umido che sentivamo il nostro stesso fiato condensare nell'aria. Lo abbracciai sanguinante e intirizzita. Rimasi così, stretta a lui, per un tempo indefinibile. Mi avvolse col suo giubbotto. Sentivo la sua voce, ma non comprendevo le parole; era preoccupato per me, solamente questo percepivo. A un certo punto mi addormentai o, forse, persi semplicemente i sensi.
Il giorno dopo gli raccontai tutto, gli narrai la follia e i deliri di cui ero testimone. Stavo finendo di descrivere il suo raccapricciante modo di dipingere, quando il rumore delle chiavi ci interruppe. Entrò sorridendo e gettò in terra un sacchetto con dei panini. In tono canzonatorio si rivolse a me: “Birichina, rendi la giacca a tuo fratello! Con tutto il bel guardaroba che ti ritrovi, hai il coraggio di rubare a Franco”.
Non avevo scelta: mi spogliai.
Lui riprese: “Brava bambina, ora torni a posare per me”.
Franco provò ad opporsi, ma di reazione ricevette uno spintone accompagnato da una risata sarcastica. Mi teneva stretta per il braccio, mentre mi riportava nel suo studio dell'orrore.
Stette di nuovo a misurarmi, a posizionarmi perplesso in cento pose. Lo lasciavo fare, come se la mia anima fosse evasa lontano e tutto divenisse indifferente.
Di nuovo intinse il pennello nella mia carne e una strana luce brillava nei suoi occhi, mentre mi dipingeva.
Anche stavolta mi riportò da Franco. Il mio gemello mi accolse tra le braccia. Gli raccontai ogni dettaglio, tutta la mia paura. Ci addormentammo dopo poco. Non so per quanto tempo ci assopimmo: era sempre buio laggiù; il giorno e la notte non si distinguevano in quel limbo.
Franco volle provare a ritrarmi, era l'unico modo per sfidare quel pazzo e proteggermi dal suo sadismo. Avrebbe usato il muro, annerendolo con la fiamma della candela. Io invece trovai la tempera giusta, riaprendo il taglio che avevo sul braccio. Non voleva, nonostante la mia risolutezza. Ci misi parecchio a persuaderlo. La sua mano tremava, mentre intingevo il suo indice nella mia carne. Cominciò a tracciare i contorni del mio corpo sulla parete, prima di addentrarsi nei dettagli. Era una sagoma raggomitolata su se stessa quella che iniziava a prendere forma. Era il mio dolore che si spandeva sull'intonaco, erano i miei occhi esterrefatti a chiedere aiuto dal loro contorno rosso.
Fece un capolavoro, superiore a quanto avesse mai prodotto nostro padre. Quando costui lo vide, sussultò sorpreso. Scrutò mio fratello come se fosse un estraneo e poi gli strinse la mano complimentandosi per la qualità del suo lavoro. Il pazzo era indeciso su cosa fare, stava per portarmi via, ma repentino cambiò idea e con uno strattone mi spinse di nuovo nella stanza. Caddi per terra, non se ne curò. Se ne andò per tornare presto con un cavalletto e tutta l'attrezzatura per dipingere, fatta eccezione delle tempere.
Lasciò anche un piccolo taglierino, utile per procurare colore. Ma non fu necessario: proprio quel giorno mi arrivarono le mestruazioni, abbondanti come non mai.
Nell'arte di Franco c'era la nostra salvezza e l'unico sistema per esorcizzare la paura: il pittore si era trasferito in mio fratello, lui era diventato il nostro genitore. Franco era il padre buono che non ci avrebbe fatto del male. Intanto quello biologico veniva diverse volte al giorno a vedere le creazioni del mio gemello e lo portava ad ammirare le sue. Si rivolgeva solo a lui, trattandolo come un collega con cui avere uno scambio alla pari su valutazioni artistiche.
Per qualche giorno la tensione si allentò.

23/11/15

IL GIORNO DEI NEMATODI(4): Orribili amplessi nematomorfi di 90Peppe90, Rubrus & Weird League

                                     


Un silenzio carezzato appena dalla brezza che gli scompigliava i capelli, si spezzava contro il camper rovesciato, agitava i rami degli alberi e…
                                                                  
                                                       - disegno di Antonio Calzone (Big Tony) -


le fronde!
Di scatto, Walden sollevò la testa. «Tania! Via!»
La ragazzina si sentì strattonare per un braccio e, istintivamente, seguendo lo sguardo del fratello, guardò in alto. Spalancò la bocca ma non le uscì alcun suono, soltanto aria sorda.
Sul ramo di un albero, stava appollaiato un uomo dai lineamenti affilati nascosti da una folta barba, il fisico segaligno, le braccia lunghe attaccate al ramo sopra al quale poggiava i piedi nudi. Indossava una camicia rossa lurida e un paio di jeans sdruciti. Li fissava sorridente e con un paio d’occhi grandi, dalle pupille minuscole e nere. Un’espressione accartocciata e che trasudava… avidità, da tutti i pori.
«Sapevo che sareste tornati», disse loro, con tono viscido. Indicò il camper, di sotto. «Troppi oggetti per due sole persone.»
Quasi contemporaneamente, sia Tania che Walden sentirono i propri cuori perdere di qualche colpo. Le parole dell’uomo… per due sole persone. Si riferiva a mamma e papà?
Ancora una volta, Walden si tirò dietro Tania, e corsero insieme verso le biciclette. Vi montarono su e presero a pedalare. Dietro di loro, il tonfo dell’uomo che si lasciava cadere dall’albero.
Veloci, veloci, sempre più veloci! I fratelli facevano mulinare le gambe ad una velocità sempre maggiore, le ruote che giravano freneticamente lungo il manto erboso e la terra.
«Dove volete andare? Dove volete nascondervi?», sghignazzava l’uomo – evidentemente un nonpiùumano – alle loro spalle. «Di quelli come voi non è rimasto più nessuno!»
«Bugiardo!», strillò Tania, con le lacrime che le presero a sgorgare dagli occhi e le svolazzavano parallelamente alla direzione di corsa. «Mamma e papà sono ancora vivi! Mamma e papà sono più forti di te!»
L’inseguitore si mise a ridere a crepapelle, né Walden né Tania osarono voltarsi. «Tanto forti da essersi fatti beccare, piccola mia», disse il nonpiùumano. «Potete illudervi, ma è sempre questione di tempo. Non siete mica i primi a nascondervi qui!»
Walden avvertì un peso piombargli prepotentemente nello stomaco. Capperi! Proprio in quel momento? Dovevano avere la prima esperienza diretta con un nonpiùumano proprio lo stesso giorno in cui i loro genitori avevano raccontato l’intera faccenda? Lo stesso giorno in cui avevano incontrato quel sinistro signor Strangman? Una coincidenza? O era davvero questione di tempo e il loro era appena scaduto?
Dopo aver svoltato – seguendo un percorso del tutto casuale o magari disegnato, ben delineato, solo a livello inconscio della loro mente; in effetti non sapevano dove andare, al momento ogni posto gli sembrava uguale all’altro, ugualmente pericoloso, nessuna via d’uscita, nessun’àncora di salvezza – Walden sentì un colpo ed una vibrazione che attraversò l’intelaiatura della bici, ripercuotendosi sul suo corpo. Tentennò, tremò, perse l’equilibrio e si buttò di lato, rotolando per terra.
                                                 
«Walden!», esclamò Tania, frenando bruscamente e sterzando il manubrio verso destra. Vide suo fratello in ginocchio, la bici bell’e stesa poco più avanti – i cerchioni continuavano a ruotare – e una pistola a breve distanza da Walden. Conosceva quell’arma, la conoscevano entrambi.
«Su, prendetela», li invitò il nonpiùumano, a braccia conserte. «I vostri genitori non hanno avuto modo di usarla; sapete fare di meglio? Avanti, vi avranno insegnato a sparare, no? Vi avranno parlato di noi, no? Sapete chi siamo, sapete cosa facciamo, vero? Non ditemi che vi hanno tenuto all’oscuro di tutto!»
I ragazzi deglutirono, la gola secca, arida. Walden annuì, come per infondersi coraggio, il tempo parve rallentare, la luce intensificarsi, i particolari ingrandirsi. Notò perfino quello che sembrava un grosso foruncolo al centro della fronte dell’uomo, in mezzo agli occhi. Gli parve un bersaglio. Il foruncolo indica il punto  dove sparare gli suggerì la sua mente che pareva scalciargli dentro il cranio come un cavallo imbizzarrito... e si gettò sull’arma. L’afferrò e la tirò su, puntandola contro il nonpiùumano. Le mani tremavano: paura, sorpresa, adrenalina. Ma ce l’aveva. Oh, sì, ce l’aveva sotto tiro. Walden premette il grilletto e…
L’umano posseduto dai nematodi eruttò in un secondo, poderoso, acceso di risa. «Ho dimenticato a dirvi di aver scaricato la pistola, prima», svelò, mettendosi una mano davanti alla bocca, in segno di “Ops”. «Ma, sapete com’è: capita a chiunque di dimenticare qualcosa di cruciale importanza. Perfino da chi ci si aspetta che ci dica tutta la verità e nient’altro che questa, per il nostro bene…»
BLAM!

16/11/15

Il giorno dei nematodi(3): PROGETTO GOODCHILD di Rubrus & Weird League


- illustrazione di Fabio Cavagliano -

Strangman scattò con la testa all’indietro sorridendo, come se si trovasse di fronte a un forziere contenente uno splendente tesoro. I denti bianchi luccicarono nella penombra del carrozzone. Il dito levato in alto si abbassò e annuì soddisfatto.

«Avidità. Non avrei potuto trovare una parola migliore. L’avidità è valida, è giusta, è funzionante e funzionale. L’avidità chiarifica, penetra e cattura l'essenza dello spirito evolutivo» fece una breve pausa per scrutare negli occhi dei ragazzi, «l'avidità e tutte le sue forme: vivere, amare, conoscere, possedere. L’avidità ha improntato lo slancio in avanti di quella imperfetta razza che chiamate “razza umana”. Ricordalo quando verrà il momento».
Cercò la testa di Walden con una mano come per carezzarlo, ma senza sfiorarlo. Il bambino, tuttavia, si ritrasse.
«Voglio farvi vedere una cosa, venite» disse Strangman, invitando i ragazzi a entrare nel carrozzone.
Borbottando si mise a rovistare in uno stipo, un piccolo armadio costruito in legno pregiato e bizzarramente decorato.
Ne estrasse un grande foglio arrotolato che aveva tutta l’aria di essere una specie di manifesto, come quelli che si vedevano nei film western, con la foto del ricercato e, sotto, la taglia. 
Lo aprì. C’era un foro vicino al lato superiore, il punto in cui era stato affisso da qualche parte. Non c’era però una singola foto, ma molte, e una scritta ripetuta sopra di ognuna: Progetto Goodchild.

Una foto, quella più grande rispetto le altre, ritraeva un tizio con la barba, vestito di nero. Tania fissando quell’unica foto sgranata e malconcia, ricordò involontariamente le parole udite poco prima: “non sono del tutto umano”.
Sotto, disposte a piramide, c’erano una dozzina di altre foto. Quasi tutte erano barrate con delle X, tutte tranne due.
«Sì, sì, sì. Io non dimentico mai una faccia» disse Strangman, Alzò due dita e iniziò ad agitarle, «famigliari?» chiese mentre come un prestigiatore, faceva apparire una vecchia foto a colori tra di esse.
Ritraeva le stesse persone del manifesto, ma in un contesto differente. Sembrava una foto di gruppo, tutti sorridenti in camice bianco, tranne uno.
- Mr Goodchild: disegno Fabio Cavagliano -

L’uomo barbuto era l’unico senza camice e ancora vestito di nero, ma la cosa che più colpì i ragazzi fu riconoscere i propri genitori al suo fianco. Erano molto giovani ma nonostante, finora, Walden e Tania non avessero mai visto delle vecchie foto, capirono che quelli erano mamma e papà quando avevano la loro stessa età.
Tania cercò Strangman nella foto, ma non riuscì a non trovarlo.
Dietro il gruppo c’era una gigantesca scultura a forma di albero, formato da bizzarre onde ellissoidi.

09/11/15

IL GIORNO DEI NEMATODI(2): IN FUGA di Rubrus e Mauro Banfi


Tania e Walden avevano pedalato a tutta velocità verso il loro rifugio segreto, nel cuore di un boschetto di farnie vicino a una larga ansa del Ticino, cosparsa di ciottoli bianchi e grigi.
Sbalordimento.
Confusione.
Rabbia.
Perché i loro genitori avevano raccontato quella terribile storia dei nematodi?
Per punirli di quale colpa?
Walden, nel camper, aveva attirato l’attenzione di Tania con il loro gesto segreto delle tre dita sulla guancia destra.
«Mà, Pà, io e Tania usciamo a fare due passi per parlare tra noi di questa storia dei nematodi».
«Va bene» disse Primo «ma tra mezz’ora vi aspetto qua per dirvi che cosa dobbiamo fare per affrontare questa minaccia»
Erano già da tre ore in fuga.



«E allora Tany, che cosa ne pensi?» buttò lì Walden, appoggiato a una fiancata della loro tenda canadese mimetizzata nel bosco.
«Mentre pedalavo pensavo a una storia che mi ha raccontato Giò, quel mio compagno di scuola mezzo teppista…»
«e che ti piace tanto…»
« smettila stupido. Stai a sentire: 
c’era una volta una volpe che notò sulla riva del fiume uno scorpione che voleva andare sull’altra sponda.
«se vuoi ti posso trasportare dall’altra parte sulla mia testa, scorpione, a condizione che tu non mi pungi» disse la volpe.
«d’accordo volpe, ci proverò ma ricordati che pungere è nella mia natura.»
Arrivati in mezzo al fiume, lo scorpione sollevò il suo pungiglione avvelenato e lo conficcò nella testa della volpe che stordita cominciò ad annaspare e ad affondare.
Prima di annegare digrignò alla scorpione: 
«Sei proprio stupido, adesso moriremo tutti e due! Perché mi hai punto? 
Ti stavo facendo un servizio utile»
E lo scorpione replicò:
«Te l’avevo detto fin dall’inizio: pungere è la mia natura». 
Tania stava per finire la storia, quando cominciarono a sentire un rumore di sassi gettati nell’acqua del Ticino.
Uscirono dalla tenda, percorsero un centinaio di metri nel bosco e videro seduto su un grosso ciottolo grigio uno strano tizio vestito di bianco che fumava.

02/11/15

DUE COSE CHE SALVO DEL WEB: LE CONVERSAZIONI DI QUALITA' E LA F.I.LW. TASK (la piattaforma fono imago litweb)


                       

Capita ogni tanto che qualche amica o amico di mail mi chieda:
«che cosa ti spinge a comunicare e a creare con il web, visto che in passato hai spesso criticato questo medium duramente e senza sconti?».
Le conversazioni di qualità e la piattaforma creativa fonoimago litweb, rispondo sempre.
In questo articolo mi occuperò della prima fattispecie.
Questi colloqui d’anima, spesso bollati frettolosamente come “commenti di scambio”, nascono con persone a noi affini, capaci di osservare e distinguere le più sottili sfumature tra le persone.
Questa è senz’altro la forza creativa principale della Rete: connettere persone unite da affinità elettive che con altri mezzi non potrebbero mai conoscersi.
Le persone giuste che amo per conversare sono quelle che sanno distinguere le differenze tra sensibilità e sensibilità umane senza giudicarle, cogliere le diversità senza condannare né assolvere, e assaporare le graduazioni senza discriminarle a ridosso di un “alto” o di un “basso”, di un Bello o un Brutto assoluti.
La capacità di questi giusti non si limita al saper distinguere senza discriminare ma anche a un’altra fondamentale capacità: connettere, infatti, non significa confondere; anzi, il connettere implica necessariamente il saper distinguere ciò che si connette; altrimenti vi sarebbe bruta omologazione, omogeneità piatta, e, quindi impossibilità di connettere e comunicare alcunché.
Se gli individui sono tutti omogeneizzati non riescono nemmeno a comunicare, ottusi come sono dalla massificazione.
Orwell ha narrato questo orrore come nessun altro in 1984.
La capacità di distinguere e percepire le differenze non è solo la caratteristica principale della persona intelligente ma è la condizione necessaria della capacità di connettersi agli altri e al circostante.